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Le favole nazionali per adulti (versione italiana del XXI secolo)

C’è una forte, devastante, violenza nell’usare la morte come spartiacque tra una vita ormai terminata e la storia che sopravvive alla carne.
In particolare, per l’Italia del XXI secolo (con un’incidenza sorprendente negli ultimi anni) si tratta prevalentemente delle vite dei c.d. ‘personaggi pubblici’ e di ciò che diventano, quelle stesse vite dopo la morte, ovvero storie con cui riempiere le bocche e (soprattutto) le menti di lettori, spettatori, ascoltatori, più in generale cittadini.
 
Favole per adulti, favole potenti, totalizzanti al punto che ovunque se ne sente e se ne legge per giorni e giorni. Favole che devono soprattutto zittire le altre voci, le realtà che stringono il collo degli italiani (la più recente, quella di Sandra Mondaini, conosce - al 23 settembre 2010 - tre giorni quasi ininterrotti di cantastorie, interviste, memorie, ricostruzioni, colpi di scena, smentite, happy end e ogni altro possibile racconto. Da Google News, lo storico. Alcune prime osservazioni sulla recente morte della Mondaini e gli happy end che ci devono essere QUI).
 
L’Italia vive un momento delicato. Da alcuni mesi si annuncia a gran voce che la crisi è finita, ma tra piazze e autostrade, quelli che se ne sono accorti (se davvero esistono) tacciono. Il sistema istruzione ha da pochi giorni iniziato un anno che sarà lungo, faticoso ed evidentemente incerto sotto molti punti di vista. Il precariato ormai è una moda, se ne scrive e se ne dice in ogni contesto col tono ammiccante che la moda stessa ha reso quasi interessante; ma di ciò che vuol dire concretamente avere una realtà professionale continuamente incerta, in pochi azzardano parole e altrettanto pochi ne colgono l’urgenza d’intervento. I giovani, le differenti generazioni definibili ‘giovani’ che vanno dai ventenni fino ai trenta-quarantenni, faticano a ricordare cosa vuol dire avere sogni, crederci, immaginare un futuro e lottare per avvicinarcisi; i giovani non si prendono sul serio, forse, anche se di certo pare esserci l’evidenza che il mondo del lavoro e quello dell’istruzione in primis non li prendono sul serio. I malati, gli anziani, le nutrite schiere di persone in cerca di giustizia, vivono in perenne disequilibrio tra economie e disparità di diritti, abbandonati fin troppo di frequente al buon senso nonché alle disponibilità di parenti, amici o semplici esseri umani incapaci di voltare la faccia (e in progressiva scomparsa).
 
Succede però che l’Italia, un paese storicamente non nazionalista, un paese che tutt’ora dibatte, si stordisce nell’eterno conflitto tra Nord e Sud, tra l’ipotetica purezza di razze con l’unico merito di essere nate tra alpi e territori catalogati a nord e la rinomata furbizia di altre razze abituate a vivere gli uni sugli altri, sfruttando, subendo e imparando dal nudo fango in gola: succede che l’Italia si scopre nazionalista, quando può ancorarsi alle favole per adulti.
Succede esattamente così: un personaggio pubblico italiano muore, recentemente gli esempi si sono sprecati (Mike Bongiorno 8 settembre 2009, Alda Merini 1 novembre 2009, Raimondo Vianello 15 aprile 2010, Pietro Taricone 29 giugno 2010, Sandra Mondaini 21 settembre 2010), e d’improvviso quella vita diventa La Favola nazionale del momento, la storia da raccontare e ripetere fino allo sfinimento. In molti hanno qualcosa da dire, ricordare, mostrare. In molti si sentono vicini, assorbiti da una morte che riconsegna al vivere di chi resta un personaggio laddove la parte pubblica del mestiere ha dato in vita una popolarità varia e non sempre così intensa come dopo la morte.

È un loop di favoleggiamenti nazionalisti, quello che sta vivendo l’Italia da alcuni anni in modo più netto e decisivo.
Ci sono state altre morti, ovviamente, di personaggi noti non italiani che hanno destato scalpore, commosso scatenando reazioni. Ma in Italia l’onda è stata – come dire – contenuta, meno anomala. Basta accennare alle scomparse recenti di Patrick Swayze (14 settembre 2009) o Dannis Hopper (29 Maggio 2010) ma anche il giovane attore australiano in procinto di essere lanciato dal film Il cavaliere oscuro, Heath Ledger (22 gennaio 2008). Una breve parentesi al ragionamento può essere concessa all’immortale Michael Jackson (25 giugno 2009) che anche in Italia ha ricevuto onori e infamie monopolizzando trasmissioni radio e tv, maratone e concerti. Ma Jackson era – probabilmente sempre sarà - il figlio di tutti, nato nero, morto bianco, eterno bambino e molestatore di bambini, cantava in inglese ma ormai anche chi non era un suo fan conosceva a memoria parole e significati di melodie catalogate tra gli evergreen anche prima della sua morte.
 
Di questo loop l’italiano ha un bisogno disperato, in molti ormai se ne sono resi conto al punto da dimenticare i vecchi tabù sulla morte pur di trasmutare la vita in storia da rimaneggiare, tendere e confondere tra happy end e aspettative mediatiche. La morte è il mezzo, un mezzo di cui non ci si deve occupare, non importa. È ciò che con la morte diventa, è ciò che scatena voci, corpi, ipotesi, memorie (vere o favoleggianti), a riportare a galla una storia d’improvviso ‘straordinaria’ al punto da veicolare l’attenzione di una grossa fetta del paese, per giorni e giorni. Nel frattempo c’è sempre – ancora – chi a poche ore dalla nascita assiste a litigi tra operatori sanitari e finisce in coma, chi pur avendo scioperato, digiunato, lottato, si ritrova con la prospettiva di un lungo inverno senza uno stipendio e una successiva primavera altrettanto assente. Nel frattempo si annuncia che il tasso di disoccupazione giovanile è salito al 27,9% ma resta un numero tra i numeri, mentre a Napoli i rifiuti rispuntano proprio davanti alle scuole, mentre la Lega sostiene a gran voce l’istruzione universitaria privilegiata per i lombardi, e gli abusi sui bambini arrivano da alti prelati quanto pensionati, mentre un italiano su quattro conosce la depressione (secondo l’Oms, nel 2020 sarà proprio la depressione la seconda causa di disabilità nel mondo), mentre tante storie ci sfiorano.

È delle favole nazionali che abbiamo bisogno. Solo loro – pare – riescono a strapparci da tutti i ‘mentre’ che fanno parte del vissuto degli sconosciuti che sgomitano accanto a noi, e altre volte fanno parte del nostro, di vissuto.
 
(C’è un innegabile coinvolgimento mediatico, a ogni livello, nel contagio delle favole per adulti, nel sollecitare insistentemente il cittadino italiano con continui bombardamenti di storie vere o presunte, fiction, docu-soap, reality, nel raccontare continuamente ‘altre’ storie che in un qualche modo catturano l’attenzione, ricostruiscono il generale senso di evasione. È altrettanto evidente, però, che come in ogni mercato che si rispetti, in ogni luogo dove si incontrano offerta e domanda, non ci sarebbe un tale coinvolgimento mediatico massimizzante se non esistesse concretamente l’esigenza – per l’appunto la domanda – da parte dei fruitori mediatici, gli italiani, di continui loop favoleggianti. Le responsabilità, come spesso accade, conoscono entrambi i sensi di marcia, il più delle volte.)
 
 
Annotazione a margine.
 
Su D La Repubblica del 18 Settembre 2010, Umberto Galimberti risponde a una trentenne che gli scrive in merito a ‘l’angoscia dell’imprevedibile’.
Scrive la trentenne: “Credo che in nessun’altra epoca come nel dopoguerra in Occidente si sia posseduta tanta ricchezza, tanta stabilità, tanta certezza del futuro. Mai era esistita una vita così blindata e sicura come quella dei nostri padri, unici detentori di un lavoro fisso e della certezza che la loro vecchiaia sarebbe stata certamente più prospera della loro giovinezza. Il futuro, prima di loro, non era certo, se non per pochi eletti. I nostri nonni hanno visto una guerra, e patito la fame vera. […] E ancora prima i loro genitori, e i loro nonni, tutte generazioni vissute in momenti politicamente di certo più instabili di oggi, e in cui mancavano molte delle garanzie sociali che pur con tutti i loro limiti e imperfezioni tuttavia esistono (diritto alla sanità, all’istruzione, ecc..). Non sarà allora che ci si sta concentrando sulla mancanza di qualcosa che oggi viene visto imprescindibile, ma che invece è stato un’eccezione nella storia dell’uomo e non la regola?”
Galimberti concorda con l’analisi della trentenne e argomenta che dietro al bisogno di certezze c’è la semplice e universale angoscia tipica della natura umana. Aggravata probabilmente da ciò che hanno vissuto le generazioni del dopoguerra, qualcosa di talmente luccicante e succulento da non passare inosservato.
Sostanzialmente i giovani italiani (i ventenni ma anche i trenta-quarantenni di cui già si è accennato in precedenza) anelano a ciò che hanno conosciuto attraverso padri e nonni, ignorando o trascurando, però, che l’incertezza (la condizione precaria in senso etimologico) è un fattore del vivere molto più diffuso, frequente e probabilmente naturale di quanto si riconosce oggi ragionando, desiderando e dibattendo.
 
Possibile che tutta l’attuale fenomenologia del precariato sia l’ennesima favola italiana? L’ennesima fiction nata da una costola delle recenti realtà e che cerca di dare spiegazioni (anche rassicuranti) alle paure, le frustrazioni, le mancanze di una società che ancora non riesce a muoversi, inchiodata a schemi, aspettative, regole e carenze ereditate da decenni e generazioni precedenti?

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