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Le donne occidentali dello Stato Islamico

Le donne Peshmerga, le madri e le figlie arruolate nelle formazioni militari kurde di Iraq, Siria a Turchia, esercitano un fascino irresistibile sui cronisti occidentali, che spesso le hanno poste al centro della loro narrazione bellica.

La donna che combatte armi in pugno il nemico islamista e misogeno è un'immagine forte e facilmente veicolabile. Provoca immedesimazione, e rispetto nel pubblico occidentale, sorpreso nello scoprire come il mondo musulmani sia in grado di offrire modelli di emancipazione radicale. Le donne kurde, nell'immaginario ormai diffuso, combattono per la loro terra, per la loro discendenza e, idealmente, per proteggere il resto del mondo dalla barbarie jihadista.

E' dunque disturbante scoprire che la propaganda dell'IS sia in grado di attrarre alla causa islamista non solo combattenti stranieri di sesso maschile, ma anche donne, e non poche. Lo rivela il New York Times, con un'analisi pubblicata alcuni giorni fa. Tra i giovani musulmani occidentali che tentano di unirsi allo Stato Islamico ci sono sempre più ragazze, desiderose di combattere o, più semplicemente, di sposare un miliziano.

Mercoledì 22 ottobre la polizia inglese ha arrestato una giovane londinese di 25 anni sospettata di preparare “attività terroristiche” da realizzare su suolo siriano. Il giorno prima la polizia americana aveva fermato tre ragazze di Denver, in transito presso un aeroporto tedesco e dirette in Siria, che progettavano di unirsi alle milizie dello Stato Islamico. Questi sono solo gli ultimi di una serie di casi simili che vedono coinvolte donne occidentali di religione islamica, giovani e giovanissime, che vedono nell'IS un modello di riferimento. La maggior parte arriva da Francia e Gran Bretagna, ma le aspiranti combattenti sono partite anche da Belgio, Spagna ed Austria.

Il fatto in se non è del tutto inspiegabile, se si considera che da diversi mesi lo Stato Islamico sta cercando di portare sempre più donne dalla sua parte, con campagne di comunicazione, forum on line ad hoc e il ricorso a reclutatori di sesso femminile, continua il New York Times. Resta però un fatto sorprendente, se ci si attiene alla narrazione corrente che dipinge i militanti del gruppo come maschilisti reazionari intenzionati a relegare il “sesso debole” nell'ambito della più assoluta passività umana e sociale.

Non esistono numeri ufficiali, ma si stima che circa il 10 % delle nuove reclute occidentali sia composto da donne, che spesso trovano sul web e i social media informazioni ed indicazioni logistiche per preparare il viaggio e organizzare il trasferimento in Siria o in Iraq. Queste fonti ovviamente offrono un'immagine estremamente edulcorata della vita sotto il Califfato dell'IS, riuscendo ad modellare le aspettative di giovani donne spesso inesperte ed influenzabili. La realtà sul campo è ovviamente molto diversa da quella prospettata, ma le tecniche di arruolamento continuano produrre i loro frutti.

La rappresentazione sui social media verte su due piani: le donne vengono ritratte mentre cucinano, preparano il té e si prendono cura dei bambini, ricalcando gli stereotipi dell'Islam tradizionalista. Al contempo, sui network vengono veicolate immagini di donne marziali, armate con fucili automatici, che tengono per i capelli le teste mozzate del nemico. In un qualche modo viene lasciata loro la scelta, se prendere parte al nuovo califfato come mogli fedelo o come guerriere, artefici della rivoluzione sulla prima linea del fronte.

Esiste anche un gruppo islamista tutto al femminile legato allo Stato Islamico. Si chiama Al Zawaraa e agisce su Internet per preparare le donne alla guerra santa, con training a distanza sull'uso delle armi e del primo soccorso, con focus sul ruolo dei social network e degli altri strumenti online. Non mancano corsi sul cucito e la cucina, per chi vuole sposare la causa sposando uno degli “eroi della religione”.

Secondo Katherine E. Brown, docente di Studi di Difesa al King's College di Londra, le donne occidentali dell'Is ammonterebbero a circa 200, molte delle quali sarebbero giunte nelle zone di guerra a seguito di padri, fratelli e mariti. Un numero non elevatissimo in effetti, se paragonato alle esperienze storiche di altri gruppi armati e terroristici come, ad esempio, l'IRA irlandese o in Tamil dello Sri Lanka. Ma secondo Kamaldeep Bhui, professore di Psichiatria Culturale ed Epidemiologia all'Università Queen Mary di Londra, il pericolo di radicalizzazione è lo stesso per gli uomini come per le donne. Bhui traccia un profilo della donna maggiormente a rischio: giovane, istruita, appartenente alla middle class, depressa, isolata e intollerante verso le ingiustizie sociali. Le sue considerazioni non sono una novità per gli studi sociali. La chiusura in senso neo-comunitarista e la radicalizzazione religiosa sono infatti più frequenti nelle seconde e terze generazioni, che vivono con maggiore disagio la sospensione tra le diverse culture di appartenenza.

Per Dounia Bouzer, antropologa francese, è un mix di “indottrinamento e seduzione” che oscilla tra la riscoperta dell'Islam tradizionale e la rappresentazione di un Califfato idealizzato, popolato da principi guerrieri forti ed attraenti. Come sottolinea la professoressa Brown del King's College, lo Stato Islamico offre un'immagine positiva di se stesso, contrastando le rappresentazioni ansiogene dei governi occidentali. Il messaggio è potente: “Tu qui sei benvenuta. Unisciti a noi nella costruzione di uno stato ideale”. Per molte ragazze che nei paesi di nascita non hanno mai trovato vera accoglienza, solidarietà e senso di appartenenza, la possibilità di partecipare ad un evento di queste proporzioni si traduce in un richiamo profondo.

La realtà ovviamente è assai meno rosea di quella veicolata dai messaggi di propaganda. Una volta giunte nel territorio dello Stato Islamico queste giovani donne scoprono la quotidianità di un sistema di controllo patriarcale e tradizionalista. Alcune sono costrette a sposarsi, altre a vivere rinchiuse in casa, molte devono confrontarsi con l'orrore delle bombe e dei massacri, altre ancora, aggiunge la Brown, “scoprono che la vita lì è noiosa come a Birmingham o Glsgow, eccetto che per i black out elettrici, i bagni in comune e le decapitazioni”. Alcune testimonianze riportate dall'ONU e da Amnesty International parlano di violenze, stupri, e di donne ridotte in schiavitù.

Altre testimonianze dirette, offerte da donne che in passato si sono temporaneamente unite allo Stato Islamico, sono invece di segno opposto: le violenze sono negate e si sottolinea il sostegno fattivo delle militanti alle attività del gruppo, sul fronte medico, comunicativo e logistico.

In questo scontro di rappresentazioni di segno diametralmente opposto è difficile trovare un punto di osservazione obiettivo. Ma se dovessimo essere costretti a scegliere tra i due modelli, ci schiereremmo con le donne kurde impegnate nella lotta per la difesa del Rojava, utopia work in progress nel nord-est della Siria, progressista e realmente egualitaria.

Foto: Khashayar Elyass/Flickr

Commenti all'articolo

  • Di Cesarezac (---.---.---.62) 27 ottobre 2014 21:56
    Cesarezac

    La religione islamica considera le donne esseri inferiori senza alcun diritto, compreso il diritto all’integrità fisica (infibulazione) e il diritto alla vita, ciò nonostante molte di loro arrivano persino ad arruolarsi in armi per combattere insieme ai loro aguzzini. Questa è la prova che molti esseri umani anziché essere guidati dalla ragione si lasciano condizionare dall’emotività e dall’ambiente.

    • Di (---.---.---.109) 28 ottobre 2014 13:09

      L’infibulazione non è affatto una caratteristica dell’islam e non è una norma religiosa e il suo commento è un "pochino" forzato. 


      Verissimo che esistono problemi e situazioni abberranti per la donna in molti paesi islamici, ma l’occidente cristiano non ha coscienza pulita e la questione di genere da noi è assolutamente aperta. 


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