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Lavoro povero, il salario minimo non risolve

Un'analisi del rapporto annuale Inps evidenzia che un numero estremamente ridotto di lavoratori si possono considerare poveri a causa della retribuzione oraria

Il 13 settembre, è stato presentato il XXII Rapporto annuale Inps, contenente tra le altre cose anche un’analisi sul fenomeno dei cosiddetti working poor, i lavoratori che percepiscono un reddito che li colloca in condizioni di povertà. Per definizione,

I lavoratori poveri sono coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale, per varie ragioni: in primis bassi livelli di reddito, ma anche assenza di risparmio, incertezza sulla tenuta del posto di lavoro, eccetera.

A livello europeo, un lavoratore è considerato povero se il reddito equivalente disponibile del suo nucleo familiare è inferiore al 60% del corrispondente reddito mediano nazionale (o altra soglia di povertà). Sulla base di questa definizione, secondo Eurostat i lavoratori poveri in Italia hanno raggiunto la massima incidenza nel 2017-2018 (12,3%) mentre sono scesi all’11,7% nel 2021 (ultimo anno disponibile). Altre metodologie stimano il numero di working poor italiani al 13% del totale dei lavoratori.

LAVORATORI POVERI TRA PART TIME E TEMPO PIENO

Questa definizione presenta alcune criticità ma per il momento prendiamola così. Inps affina la ricerca differenziando tra lavoratori a tempo pieno e tempo parziale. I primi hanno una retribuzione giornaliera lorda di 48,3 euro, i secondi di 24,9 euro, corrispondenti rispettivamente a 1.116 e 588 euro mensili netti. Nel mese di ottobre 2022, in base a queste soglie, i lavoratori dipendenti privati poveri sono stimati in 871.800, pari al 6,3% della platea di riferimento.

Di questi 872 mila, calcolati escludendo lavoro agricolo e domestico, 355 mila sono a tempo pieno e 517 mila a part-time. Questi ultimi, secondo il rapporto Inps,

Risultano particolarmente presenti al Sud (209.100): in valori assoluti superano la consistenza registrata al Nord (199.600) e in termini percentuali pesano sul totale dei dipendenti a part time per il 17,3% (10,8% al Nord). Per quanto riguarda la tipologia del rapporto di lavoro sono caratterizzati prevalentemente da contratti a tempo determinato (quasi al 20%; al Sud si arriva al 24%, quasi un dipendente su quattro). L’incidenza è di rilievo anche tra i tempi indeterminati (12%) e gli apprendisti (13%).

Per quanto riguarda i 354.600 WP a full time,

[…] riscontriamo una composizione caratterizzata ben diversamente da quanto osservato per i WP a part time. Non si evidenzia nessuna particolare concentrazione territoriale (l’incidenza al Sud è inferiore a quella osservata al Nord) mentre emerge, invece, una marcata caratterizzazione contrattuale: il lavoro intermittente riguarda 113.200 dipendenti (con un’incidenza sulla relativa platea superiore al 51%) e l’apprendistato caratterizza altri 77.500 dipendenti WP, con un’incidenza del 20% sul totale degli apprendisti.

Restano da analizzare 124.200 casi di working poor full time a tempo indeterminato e 39.700 suddivisi tra tempo determinato e somministrazione. Dopo aver depurato questi casi da situazioni di riduzione della retribuzione complessiva legate a CIG, malattia, maternità/allattamento, Inps giunge alla conclusione che ci sono solo 51.400 casi di contratti formalmente a tempo pieno per i quali la bassa retribuzione pare avere origine strettamente contrattuale.

Dopo ulteriore scrematura, realizzata estendendo il calcolo della retribuzione non al solo mese di ottobre 2022 ma all’intero anno, si giunge a identificare solo 20.300 lavoratori dipendenti a tempo pieno che sono effettivamente poveri in base alle soglie definite. Coloro per i quali si pone un problema di retribuzione oraria troppo bassa. Cioè solo lo 0,2% del totale dei dipendenti italiani. Il 75% dei quali si trova entro uno dei principali 20 contratti collettivi nazionali di lavoro, cioè sottoscritti dalle principali organizzazioni sindacali dei lavoratori, con le sole eccezioni di “Servizi alle famiglie”, “Commercio” e “Servizi ausiliari integrati”.

TIRANDO LE SOMME

Se siete arrivati a leggere sin qui, vi meritate il mio riconoscente plauso. E anche le conclusioni contenute nel Rapporto Inps:

Si ricava, in definitiva, che i WP – identificati sulla base delle soglie indicate – risultano particolarmente addensati tra i dipendenti a part time (oltre mezzo milione) ma non è possibile precisare ulteriormente, a questo livello di indagine, quanta parte del loro deficit retributivo sia attribuibile a una bassa intensità di impiego (part time di poche ore) e quanta, invece, a livelli salariali orari insoddisfacenti.

Per quanto riguarda gli oltre trecentocinquantamila WP a full time, essi risultano in buona parte riconducibili a due tipologie contrattuali specifiche (apprendistato e intermittente) mentre, per la quota restante, contano significativamente condizioni sia di assenza temporanea sia di situazione transitoria (superata nell’arco dell’anno). I WP a full time per ragioni salariali sono 20.300 (0,2% sul totale della platea dipendenti) e distribuiti tra un numero rilevante di CCNL, inclusi quelli con le platee più vaste e firmati dalle organizzazioni sindacali maggiori.

I WP risultano quindi sotto il profilo numerico una componente marginale dell’insieme del lavoro dipendente. Ciò non esclude (anzi) che la loro presenza sia concentrata in aree “borderline” rispetto ai “normali” rapporti di lavoro dipendente: partite IVA attivate in alternativa all’impiego come dipendente; posizioni formalmente riconducibili a istanze di completamento della formazione professionale (stagisti, praticanti etc.) e idonee a camuffare rapporti e aspettative simili di fatto a quelle sottese al “normale” rapporto di lavoro dipendente; posizioni di lavoro autonomo occasionale o parasubordinato. Senza dimenticare le varie tipologie di lavoro nero, integrale o associato a posizioni parzialmente irregolari.

Mi pare tutto molto comprensibile. In che direzione? Che la questione “salario minimo”, dopo aver letto questa analisi, è come minimo mal formulata e altrettanto mal posta. In Italia abbiamo una pletora di lavori “formali”, cioè contrattualizzati, a basso numero di ore. Che tale basso numero sia riconducibile anche a forme di nero, è del tutto possibile o anche probabile, secondo il senso comune. Ma aumentare la retribuzione oraria non sarebbe risolutivo. Anzi, in letteratura (come dicono quelli “studiati”) si osserva che l’aumento della retribuzione unitaria tende a causare una flessione delle ore lavorate o dichiarate tali. Non che questa sia una scoperta sconvolgente: è semplicemente l’incrocio delle curve di domanda e offerta inclinate normalmente.

Come che sia, e in attesa di leggere altri studi e altre metodologie che affermino l’opposto, possiamo concludere che siamo di fronte all’ennesimo spin a fini di lotta politica. Senza scordare che la famosa proposta di legge “delle opposizioni” (con esclusione di Italia viva), continua a non quantificare l’onere del sussidio da erogare agli imprenditori per passare al salario minimo di 9 euro orari di trattamento economico minimo. Sono dettagli.

Sia assolutamente chiaro: il tema dei working poor resta un macigno sul tavolo. Semplicemente, la soluzione non pare passare dal salario minimo orario, tranne per pochissimi lavoratori. Sarebbe come spingere una stringa. Strumenti sbagliati per problemi veri: attività in cui il discorso pubblico italiano tende a eccellere. Viviamo di diversivi e di spin. Forse per quello sovrabbondiamo di spin doctor social media manager.

Dopo di che, cercheremo la scorciatoia chiamandola soluzione, e punteremo alla decontribuzione. Cioè a ridurre il costo del lavoro sul netto in busta, mettendo a carico della fiscalità generale un sistema ormai schiacciato da oneri veri e che non riesce a sviluppare una produttività da redistribuire. Se ci pensate, anche questa è una effimera e nociva scorciatoia di fronte alla realtà.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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