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La prossima crisi in Eurozona? La sostenibilità del debito pubblico in un paese

Nei giorni scorsi, su Project Syndicate, è apparso un commento di Daniel Gros, economista direttore del think tank Center for European Policy Studies (CEPS), in cui si evidenziano le mutazioni intervenute nell’economia dell’Eurozona dopo la Grande Crisi, e che fare per affrontare la prossima, soprattutto quella che colpisse singoli membri dell’area. Un’analisi interessante che giunge ad una considerazione di fondo: nessun problema prevalentemente domestico potrà mai essere gestito con un sistema di prestiti o trasferimenti dall’estero.

Il punto centrale dell’analisi di Gros è che, dopo la crisi, anche i paesi della periferia dell’Eurozona, con l’eccezione della Grecia, registrano crescenti avanzi delle partite correnti. Stanno quindi ripagando il debito estero, in caso ne avessero, e di conseguenza soffrirebbero meno in uno scenario di rialzo internazionale dei rendimenti. Questo è un quadro dipinto con grandi pennellate, ovviamente: Spagna e Portogallo, pur avendo migliorato negli ultimi anni la loro posizione netta sull’estero, restano importanti debitori.

Questo è il trionfo in Eurozona del modello tedesco, quello che punta ad un forte settore estero e ad avanzi importanti delle partite correnti. Un modello esposto a rischi, in questa congiuntura internazionale dove le pulsioni protezionistiche crescono. Prendiamo tuttavia questa considerazione come un dato, ed analizziamo, con Gros, che tipo di crisi attendersi e che strumenti serviranno per gestirla.

La precedente crisi ha dinamiche ormai note. Grandi afflussi di capitali in paesi periferici hanno prodotto pressioni inflazionistiche, e dirottato risorse dall’export ai consumi interni, producendo posizioni fiscali pubbliche tanto forti quanto illusorie. Perché? Perché sulle importazioni gli stati incassano l’Iva, sulle esportazioni la rimborsano. Quando i flussi finanziari si sono bruscamente invertiti (sudden stop), è servita una svalutazione interna, che spostasse nuovamente risorse verso l’export, rimuovendo l’eccesso di import. Il risultato, per i paesi della periferia, è stata una profonda recessione. La Grecia è stata distrutta dal fatto che i suoi deficit fiscali, nel corso degli anni, sono stati finanziati con afflussi di capitali esteri, come tipicamente si faceva nei paesi emergenti.

Oggi un’eventuale crisi non avrebbe più la stessa origine, perché la posizione aggregata delle partite correnti fa di quasi tutti i paesi dell’Eurozona degli esportatori netti di capitali, non degli importatori. La prossima crisi, quindi, non avrà la stessa provenienza della precedente ma potrebbe derivare, ad esempio, da dubbi degli investitori in titoli di stato circa la sostenibilità del debito pubblico di un paese, cioè delle sue prospettive di crescita.

Se le cose stanno secondo queste premesse, non ha senso creare un Fondo Monetario Europeo (FME) dall’attuale ESM, a immagine e somiglianza del Fondo Monetario Internazionale, perché quest’ultimo ha un modus operandida sempre molto preciso: aiutare i paesi in crisi di bilancia dei pagamenti. Quelli che hanno perso competitività, e che nel passato hanno finanziato deficit pubblico soprattutto con afflussi di capitale estero “caldo”, quello più volatile, che fugge più rapidamente quando le cose vanno male. La ricetta del FMI era sempre quella: distruggere domanda interna per riequilibrare le partite correnti e ripagare il debito esterno.

Che fare, quindi, del ESM o del futuribile FME? Sostiene Gros:

«In queste circostanze [di crisi di sostenibilità del debito pubblico di un paese, ndr], un prestito dal ESM fornirebbe solo carburante per ulteriori fughe di capitali. Invece di cercare di copiare il FMI, i leader europei dovrebbero focalizzarsi a rafforzare la resilienza del sistema finanziario, così da fornire una valvola di sicurezza per ogni pressione che inevitabilmente sorgesse da eccessivo accumulo di di debito pubblico in alcuni paesi dell’Eurozona. Se una crisi si verificasse, le risorse dell’ESM potrebbero forse essere usate per impedire il contagio entro il sistema finanziario dell’Eurozona, piuttosto che per fornire prestiti a paesi con radicati problemi domestici»

Detta così, è un po’ criptica. Proviamo a tradurla. In caso di crisi causata da sfiducia degli investitori (in primo luogo di quelli domestici, attenzione) sulla sostenibilità del debito pubblico di un paese, i soldi dell’ESM devono servire a mettere in sicurezza il sistema finanziario europeo, bloccando il contagio. Traduciamo oltre: in caso di crisi del debito sovrano di un paese, se le banche di quel paese sono piene di debito pubblico domestico, serve salvare loro per preservare il sistema dei pagamenti europeo.

E come? Ristrutturando il debito pubblico del paese assistito, ad esempio allungandone le scadenze, per evitare che il prestito ESM vada a pagarne le cedole. Lo vedete, il punto? Se le banche del paese sono piene di debito pubblico che viene ristrutturato, serve impedire che quelle banche falliscano, perché questo evento sarebbe veicolo di contagio esterno.

La logica è semplice: la prossima crisi in Eurozona non verrà da sudden stop e crisi di bilancia dei pagamenti, bensì dalla sostenibilità del debito pubblico. Se quest’ultima verrà messa in dubbio da fughe dei creditori (ad esempio, da italiani che votano coi piedi, cioè si liberano di Btp e comprano Bund), i prestiti esteri serviranno solo per impedire il collasso delle banche domestiche coinvolte nella ristrutturazione del debito pubblico.

Altro da aggiungere direi che non c’è. Il futuro dell’ESM o del futuro FME poggerà come prerequisito di intervento non su crisi di bilancia dei pagamenti ma sulla sostenibilità del debito pubblico. A quale paese in prima battuta ci si riferisca, con questa analisi e questa terapia, a voi scoprire.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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