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La perdita dei sensi e del buon senso

Ivan Illich è stato un pensatore e uno studioso impareggiabile e "La perdita dei sensi" è un libro che può far venir le vertigini anche alle persone più intelligenti e istruite (www.lef.firenze.it, 2009).

La perdita dei sensi e del buon senso

Questo libro è una miscellanea molto interessante di testi “puri” di Illich che parlano dell’uomo, della storia e della società. Su Illich ho già scritto molto in precedenza per cui in questa recensione preferisco focalizzare l’attenzione su un aspetto del suo pensiero che ho trascurato in precedenza.

La perdita del senso delle relazioni umane in questo mondo sempre più invaso dalla tecnocrazia è un fenomeno che va valutato con estrema attenzione. Anche se Illich ammetteva di essere un antimodernista, un simpatizzante della trasformazione sociale continua come il sottoscritto riconosce che il cambiamento tecnologico e antropologico che si sta diffondendo in questi ultimi anni rischia di avvelenare i rapporti tra le persone e quelli tra le comunità e le nazioni.

In questo libro viene narrato un episodio molto toccante dove, due essere umani, un prete e una donna anziana scampata all’olocausto, discutono in amicizia del mistero e del sentimento dell’accettazione della morte. Forse la vita ci può offrire una o più occasioni per innamorarci perdutamente e può riservarci una sola occasione per morire serenamente o perlomeno con dignità.

Non è facile parlare della morte in questa società del consumo, del divertimento e dell’illusione della felicità crescente. Infatti tutte le persone dotate di buon senso possono constatare che la felicità si comporta come la Luna e ha fasi crescenti e fasi calanti. Comunque non esiste nessun professionista della morte poiché nessuno l’ha mai provata e vissuta direttamente altrimenti non sarebbe più tra noi. Si può parlare solo di quel sentimento di mortalità che in genere appare solo in caso di malattia grave o in caso di profondo logoramento fisico, psichico dovuto all’età molto avanzata, che spesso è anche associata a malattie molto debilitanti.

Il caso narrato si può descrivere come l’incontro di due cuori che mostrano le loro "braci rosseggianti", e che perdono forse il momento magico dello scambio comunicativo amorevole, paritario, imparziale e incondizionato. Senza entrare nei particolari della situazione unica, legata alla storia dei due protagonisti, si narra l’ultimo momento nel quale una persona è in grado di accettare la sua morte. E non si tratta del discutere della qualità delle cure che permettono una sopravvivenza più prolungata. Si tratta di trovare il coraggio di parlare dei numerosi anziani che vegetano in uno stato “di non ancora morti” nelle case di cura di tutto il mondo.

Forse può essere utile aprire un dibattito di questo genere con la premessa che possono parteciparvi solo quelli che hanno visto con i loro occhi e sentito con le loro orecchie le anime perdute di questi esseri umani che hanno ormai perduto la fisicità e la psicologia dell’umanità. La bolla di ghiaccio che li circonda o i rantolii animaleschi sono i segni caratteristici delle condizioni estreme di questa “malattia sociale” disumana che rischia di colpire circa 8 essere umani su 10 negli ultimi giorni della loro vita.

Fino a qualche decennio fa quando un medico si trovava di fronte a un malato grave e “quando la sua arte gli indicava di trovarsi al capezzale di un morente, il medico doveva restituire i suoi onorari e lasciare una stanza che aveva smesso di essere la camera di un malato. Il giuramento d’Ippocrate che vieta al medico ogni futile tentativo di curare un agonizzante, è stato snaturato dalle interpretazioni degli ellenisti del XIX secolo” (p. 110).

Il medico tecnocrate non sa più riconoscere lo sguardo della vita che si prepara alla morte e in molti casi prolunga inutilmente l’agonia di questo processo che nei tempi passati era molto naturale, poiché la persona anziana non era più in grado di nutrirsi e abbeverarsi. Inoltre la polmonite era chiamata “l’amica dei vecchi” perché se li portava via molto prima che l’organismo degenerasse in un caos neurovegetativo. Oggi con l’alimentazione forzata e gli antibiotici abbiamo salvato innumerevoli persone, ma abbiamo anche schiavizzato degli esseri umani non più capaci di intendere e di volere. Di certo la “bioetica” delle multinazionali non consentirà di rinunciare ai loro onorari sotto forma di prodotti medicali e farmaceutici che prolungano lo stato di sfinimento biologico e quello di premorte.

Oggi l’impresa medica “agisce esattamente come una liturgia religiosa che inventa dei miti: partecipandovi, malgrado le prove in contrario. Non ci si può impedire di credere che il combattimento contro la morte è un dovere. La scalata dei costi e il dolore prolungato delle cure terminali non hanno avuto alcun effetto statistico in materia di aumento della speranza di vita di quelli che hanno più di cinquantacinque anni. Ma ciò ha accreditato una menzogna facendo perdere di vista ai giovani come ai vecchi che non è la durata della vita, ma la speranza di vita alla nascita che è aumentata nel XX secolo” (p. 254).

La morte sopravviene in determinato quadro culturale e personale e il medico non può essere l’attore principale della scena se non viene desiderato dai familiari o dal malato che sta soffrendo la perdita dei sensi. Inoltre nella cultura mediterranea esiste la norma secondo la quale il morente ha bisogno di una presenza amica, “che gli dica la verità e resti con lui fino alla fine” (p. 260).

Ed è molto meglio morire dignitosamente nel proprio letto, invece di essere trattati come materiale biologico o di essere sfruttati da medici incoscienti e case di riposo pubbliche e private. 

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