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La modifica dell’articolo 18: un sacrificio inutile

Il governo Monti si appresta a modificare l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: ecco perché non aumenterà la produttività delle imprese

Nell’intervista con Lucia Annunziata,ancora una volta Monti ha ribadito che l’articolo 18 non deve essere un tabù.

Ancora una volta ha giustificato il licenziamento individuale senza giusta causa con le esigenze di competitività del sistema industriale connesse alla riduzione del costo del lavoro e quindi dei prezzi, e con la necessità di attrarre investimenti nel nostro Paese e di estendere il contributivo a tutti.

Ma il licenziamento individuale senza giusta causa è già operante nell’85% delle aziende italiane a cui non si applica l’art 18. Se ciò è vero, c’è da chiedersi quali effetti potrà sortire una riforma che investe una minoranza dell’industria italiana. E peraltro verso quanti posti di lavoro ha determinato e determina, quanti investimenti ha attratto e attrae l’assenza dell’art 18 nel modo delle piccole imprese. E di quanto si è abbassato il costo del lavoro. E dove opera l’art 18, vale a dire nelle grandi imprese, se è precluso il licenziamento individuale senza giusta causa sono sempre possibili licenziamenti collettivi senza giusta causa. Emblematico al riguardo è il caso Omsa, dove l’imprenditore delocalizza e licenzia non per necessità di profitto, ma per maggiori profitti.

E che cos’è questo se non un licenziamento collettivo senza giusta causa? Ma la riforma dell’art.18 come non può prescindere dal contesto in cui si colloca? Viviamo in un’economia globale, di imprese globali, di competizione sistemica. Il problema è come si inquadra la politica del lavoro e quindi la modifica dell’art 18 in un sistema globale.

Se la questione fosse stata affrontata, si sarebbe parlato di investimenti nella scuola, di formazione, cioè dei fattori che danno vita alla qualità del lavoro che in un sistema globale conta di più del suo costo. Si sarebbe parlato di omogeneizzare, perlomeno al livello europeo, il trattamento minimo salariale e i diritti fondamentali dei lavoratori, fattori che stimolano la delocalizzazione e con essa la competizione tra Stati sommamente dannosa per l’economia dell’Europa .In un sistema globale conta di più la collaborazione tra Stati e quindi tra imprese europee che una competizione tra le stesse .

In una economia globale, la qualità della prestazione e la omogeneizzazione dei trattamenti dei rapporto di lavoro sono i fattori competitivi decisivi.

La riduzione dei diritti dei lavoratori, e in quest’ambito la modifica dell’art 18, in funzione dell’aumento della produttività e quindi della riduzione del costo del lavoro serve a poco. In ogni caso il licenziamento ingiusto facilita la risoluzione del rapporto di lavoro,ma non aumenta la produttività. Ciò che aumenta la produttività è il licenziamento necessitato da motivazioni economiche, ma non quello determinato dai capricci dell’imprenditore o dalla fine del rapporto fiduciario.

Nel quadro della competizione globale l’aumento della produttività è compatibile con la globalizzazione per la necessità dell’uso ottimale delle risorse, ma non è un fattore competitivo decisivo. La fine del rapporto fiduciario conta molto per i dirigenti ma poco per gli operai. La riduzione del costo del lavoro era un fattore competitivo decisivo in un’economia multidomestica, ma non in un'economia globale dove, viceversa, il fattore competitivo vincente è la valorizzazione della forza lavoro in termini di formazione, scolarizzazione per una produzione innovativa e di qualità.

Prima si vinceva sul mercato se si produceva a costi minori, oggi si vince se si fa un prodotto migliore degli altri, o un prodotto nuovo. In tale contesto l’uomo e l’intelligenza hanno maggior valore aggiunto rispetto ai macchinari, e così anche l’investimento nella ricerca.

E d’altra parte in un mercato dove i livelli di produttività sono al top e la riduzione del costo del lavoro ai massimi livelli non si può pensare di vincere accorciando un poco le distanze rispetto alla concorrenza. Non si può competere sul costo del lavoro con la Cina e l’India. E tutto ciò mentre la Cina aumenta i diritti dei lavoratori, i loro salari e punta decisamente ad incrementare la ricerca e la qualità dei prodotti . Non può l’industria italiana impegnarsi nello sfruttamento intensivo del lavoro (bassi salari e pochi diritti), e trascurare il margine competitivo costituito dalla qualità del lavoro mentre la concorrenza è impegnata nelle conquista di tale fattore di competizione.

Dunque la modifica dell’art 18 non sviluppa la nostra competitività, ma è anche un atto incivile. L’art 18 segna, nella storia delle relazioni sociali, una conquista di civiltà che, tra le altre cose, stabilisce che:

- il licenziamento senza giusta causa è un abuso contro la persona;

- la prestazione del lavoro non è una merce;

- la tutela del posto di lavoro ingiustamente sottratto, è un interesse pubblico.

Ora tutto questo viene spazzato via da una norma nascosta tra le pieghe del decreto sulle liberalizzazioni, attuativa di una specifica richiesta UE. Una norma che monetizza il licenziamento senza giusta causa e sostituisce il ripristino del posto di lavoro con il risarcimento danni.

Su queste tematiche si misura il grado di civiltà di un Paese. E il Governo cerca di sfuggire a questi problemi, riducendo l’ambito operativo dell’art 18 alle aziende con personale inferiore a 50 addetti. Ma il problema è utile o inutile; un progresso o un regresso prevedere che :

-il licenziamento senza giusta causa è la lesione di un diritto contrattuale ;

- la prestazione del lavoro è una merce;

- la tutela del posto di lavoro ingiustamente sottratto è un interesse privato.

 La trama del lavoro subordinato è intessuta di fili soggettivi (art 35, 36, 37, 38...) che investono il rapporto del lavoratore con il datore di lavoro, il rapporto del lavoratore con la prestazione. Ritmi di lavoro che prescindono dai riflessi sulla salute dell’operaio, un salario che lede la dignità della persona - o contraria alla parità uomo/donna - licenziamenti che prescindono dai diritti della persona, dalla sua dignità, configurano un trattamento del lavoratore come una cosa priva di anima e di corpo. Per evitare un tale degrado il legislatore ha previsto per il lavoratore una serie di diritti a difesa della salute, della dignità del lavoratore, della libertà sindacale, che individuano la struttura soggettiva del rapporto di lavoro.

In coerenza con questa impostazione viene previsto come sanzione del licenziamento ingiusto il ripristino, che è una sanzione collegata alla soggettività del lavoratore, alla sua dignità. E in forza di questa soggettività, di questa dignità, lo Stato riconosce nella tutela del posto di lavoro un interesse pubblico. La ricollocazione nel posto di lavoro del lavoratore ingiustamente licenziato non è interesse solo del lavoratore, ma anche dello Stato. 

Il risarcimento è collegato all’interesse privato del licenziato e dell’imprenditore, determina la riduzione del rapporto di lavoro ad una vicenda meramente privatistica tra datore di lavoro e lavoratore. E ciò comporta la espulsione dello Stato dal rapporto di lavoro. Il lavoratore viene lasciato solo, senza sindacato, senza Stato, senza difese. Il lavoratore ingiustamente licenziato non subisce non solo una danno, ma la lesione della sua dignità, allo stesso modo del calunniato, del imputato condannato ingiustamente.

E allora: perché la diffamazione è sanzionata dalla correzione delle frasi diffamatorie, dalla richiesta di scuse? Perché l’ingiusta condanna dalla liberazione , dalla pubblicazione della sentenza di rettifica, sanzioni che tendono a ripristinare la situazione lesa? E perché invece il licenziamento ingiusto non può essere sanzionato dal ripristino?

E d’altra parte il rapporto di lavoro è un rapporto fiduciario e come tale un rapporto tra persone e non tra la prestazione e il datore di lavoro. Si invoca la fine del rapporto fiduciario per giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro, ma si rifiuta di trattare le vicende che ruotano intorno a questo rapporto come incidenti sulla personalità e soggettività del lavoratore che è una delle parti del rapporto.

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