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La lotta alla mafia non è il circolo del bridge

In questi giorni di luglio diventa difficile ragionare con lucidità, mettere le cose nel giusto ordine, scrivere, raccontare. Non è perché si è arrivati alla soglia delle ferie, e neppure a causa del caldo. La ragione va trovata nel senso di sconforto e impotenza che ormai ha afferrato noi italiani, un atteggiamento che ci impedisce di reagire o peggio, che ci porta a una reazione di chiusura.

Siamo un popolo strano noi italiani. Un popolo prima di sudditi, e poi di militanti e oggi di consumatori. Senza mai diventare cittadini. Un popolo di cortili, di veti, di gruppi. Di potere anche quando il potere non c’è. Siamo un popolo di “anti”. Anticomunisti, antifascisti, antidemocristiani, antimafia. Antimafia, essere contro il potere (i poteri) criminali. Una battaglia nobile, che dovrebbe essere trasversale, plurale, di tante voci differenti che si fanno una. Per una società fondata sulla legalità, sulla democrazia, sulla pluralità, appunto, di voci. Una battaglia, quella contro le mafie, che dovrebbe essere di tutti. Ma non è così. Il nostro bisogno di appartenere a microscopici club ci porta, di più ogni anno che passa, a essere divisi, antagonisti, rancorosi, sospettosi. Non uniti contro un unico obiettivo, ma divisi e impegnati a farci la guerra fra di noi, a escludere invece che includere.

Questo succede. Siamo un popolo di tifosi un po’ frustrati, che abbiamo bisogno di definirci, di metterci una divisa che ci allontani, di parole d’ordine gridate e di poche azione. Ci bastiamo, ognuno con il suo gruppetto o con il proprio circolo del bridge.

Quando si esclude chi la mafia la subisce ogni giorno, quando non si guarda chi ogni giorno deve districarsi dal peso di una cultura, si è già perso. Quando la lotta civile e politica diventa un affare di club, di pettorine, di improvvisatori autonominati e poi di mistica e di simboli ogni possibilità di essere davvero parte di una società che deve e vuole cambiare si è perso. La lotta alle mafie è una cosa seria, la ricerca della verità è una cosa seria, la giustizia (termine che preferisco di gran lunga come sostitutivo del termine abusato di legalità) è una cosa maledettamente seria.

Lo so, sono un vecchio libertario anche un po’ anarcoide e fino da quando ero un ragazzino ho un’allergia enorme verso le divise, le parole d’ordine, e i sergenti. Ma vedere un gruppetto di auto nominati escludere, anche con parole grosse e insulti, i palermitani che finalmente, dopo una lunga diffidenza, erano venuti a trovare questi giovanotti “stranieri” armati di libretti rossi, che non erano quelli di Mao, mi fa pensare che la mia allergia pluridecennale era ben motivata. Quando un movimento si fa pattuglia pensandosi un esercito si è già perso. Ma rassicuriamoci, non hanno perso certo quei siciliani che ogni giorno si fanno un culo così per sconfiggere la cultura mafiosa. Loro domani saranno qui a fare i conti. Per loro Palermo non sarà mai una vacanza. È e sarà sempre la loro città da vivere e da cambiare.

Quando ci si prende troppo sul serio e ci si bea solo della propria voce, invece, nonostante ci si autoassolva, si fa solo un favore alla mafia.

E come tanti non alliennati, disertori, obiettori pacifisti e non violenti oggi sarò a via D’Amelio

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