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 Home page > Tribuna Libera > La felicità dea incompresa

La felicità dea incompresa

Accadde qualche tempo fa, sempre lì sulla panchina.
Dice lei – una signora di mezza età, un’attività in proprio, soddisfacente, una famiglia, un conto in banca, una casa, una macchina, e tanto ancora – a lui – senzatetto, una borsa i soli averi, una prospettiva assai incerta, un cartone il giaciglio, il lavoro la passione – si vede che sei felice, tu hai tutto! a veemente sostegno della propria infelicità.
Mascella rasoterra, occhi strabuzzati, i suoi di lui, s’apre il varco già di colpo alla più selvaggia speculazione di stampo filosofico: quell’uno che non ha niente è felice e perciò ha tutto o è felice di suo e pertanto si trova ad avere tutto rispetto a colui che tutto ha, ma non lei, la felicità, perché lei è già tutto ciò che serve? E chi non l’avesse è perché vi è nato senza, cioè privato dalle origini, in quella corsa assai folle dei giorni nostri alla spiegazione d’ogni affare nei termini esclusivi di una sacra genetica, e così è destinato, viva forza, a una vita di sofferenza come insegna pur la religione? O è forse lei, la sofferenza, un’invenzione della stessa, a sentire il Maggi frate eretico, quando dice che è già lei, la religione, a “presentarci un Dio che proibisce quello che piace e che dà piacere alla vita e obbliga a tutto quello che è penoso, ed è per questo che rischiamo forse di non essere pienamente felici”? Ai professori la competenza, si dice lui un po’ confuso, non è mio né il piacere né il terreno delle platoniche esternazioni, chiedo venia.
Mentre lei si allontana lui rimane lì, sulla panchina, con le parole appena udite a fargli compagnia. Non ci aveva mai pensato, seriamente, alla felicità e cosa fosse. Ne parlano, ne scrivono, la trattano dalla notte dei tempi, ma a viverla pare utopia. Tutti la desiderano, tutti la mirano, lei è l’oro degli alchimisti, lei il lapis exillis del Sacro Graal, lei è la panacea di Asclepio, chi la vive non la riconosce, i suoi volti sono tanti, non è mai uno solo, e lui evita di pittarli per non andare a rinforzare le fila di chi già la definisce. Forse, serve al caso, pensa lui ingenuo indagatore, per risolverlo il gran problema dell’infelicità tal ingombrante, eliminare ogni dolore dall’umana esistenza, ma che ne sarebbe del piacere d’un masochista appassionato, che proprio in lui trova somma la soddisfazione? Pur scacciando la sofferenza, pensa ancora, fosse lei il vero ostacolo, che ne sarebbe di una valle senza lacrime e il piacere delle sue croci tanto care alla religione gran patrimonio culturale delle genti pie e devote? Stesso vanto tocca in sorte al lamento e al piagnisteo… è assai difficile di già pensare una vita senza loro e il piacere di un’occupazione sì lucrosa di noi umani.
Pensa lui a questo punto, ora pure affaticato, che miglior cosa è lasciare il mondo nello stato in cui si trova. Il piacere è già dentro ogni affare che trattiamo, ogni azione che compiamo, ogni luogo che abitiamo, che sia quiete o lamento. La felicità dea incompresa dentro il cuore è già sovrana. Dalle vesti sì cangianti attende solo d’esser vista e, come il cielo dopo la tempesta apre il cuore all’occhio stanco, lei infonde il suo calore e trasforma anche il dolore, quello vero, di un’anima sol prigioniera d’una mente sempre illusa.
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