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La fama, il successo e la politica che non c’è più

Ci siamo preoccupati per il dilagare della politica. Avremmo dovuto farlo ancor di più per il dilagare, dentro la politica, di valori provenienti dal mondo del commercio e dello spettacolo.

Mi sono trovato a confrontare il carattere degli imprenditori che hanno fatto fortuna durante il boom edilizio spagnolo con quello, assai più prudente e conservatore, dei miei compaesani galiziani. Sono marinai, questi ultimi, ma avventurosi solo tra le onde, mentre a terra si rivelano imbevuti dei valori del contadino che mira, prima di tutto, a mantenere il possesso del podere per trasmetterlo ai figli, magari con qualche cauto miglioramento. E’ un tipo di mentalità, questa, profondamente avversa al rischio, con cui non si costruiscono imperi, ma che ben difficilmente porta al disastro.

L’imprenditore di successo, viceversa, è l’uomo che naviga a vista, anche nella vita, veloce nel cogliere le occasioni e capace di prendere un rischio, almeno così lui spera, calcolato. Un atteggiamento con cui gli imperi si costruiscono di certo, anche se spesso effimeri, e che, però, con maggiori probabilità porta dritti al fallimento; sono gli stessi imprenditori, infatti, a dirci con un certo orgoglio che, per ogni dieci di loro che iniziano, a lungo termine ne resta solo uno.

Capirete che, arrivato alla mezza età e con figli, non sogno di essere governato “avventurosamente”, ma mi auguro che a decidere del destino del mio paese siano uomini capaci di gestire il cambiamento, certo necessario, in modo cauto e graduale. Non affiderei, dunque, l’Italia a un grande imprenditore, né, proprio per il tipo di doti che ha dovuto possedere per arrivarvi in una società come la nostra, a chi abbia già raggiunto la fama, e un successo che sia, più che strettamente professionale, in campi diversi da quello della politica.

Negli ultimi decenni, estendendo il discorso, ci si è molto preoccupati per il dilagare della politica. Non si sbagliava, intendiamoci, nel ritenere pericoloso che settori, sempre più ampi, della nostra economia e della nostra cultura fossero sotto il controllo, o se preferite la protezione, di questo o quel partito, ma si sarebbe fatto bene a inquietarsi ancora di più per la contaminazione della politica da parte di valori che provenivano dai mondi dell’impresa e dello spettacolo.

La crisi della nostra democrazia, spero si sia capito, almeno oggi, è iniziata quando lo scopo delle nostre forze politiche, in un mondo in cui erano entrare in crisi le ideologie, ha smesso d’essere la ricerca del motivato consenso dei cittadini: i nostri partiti hanno cominciato, allora ad assomigliare a società commerciali, mentre i criteri di selezione dei loro dirigenti sono diventati la capacità di attrarre denaro, magari sapendo proporre buoni affari a pochi conniventi, e quella di affascinare gli spettatori, prima ancora che di convincere gli elettori.

I politicanti dell’era di tangentopoli, padroni degli appalti e signori delle tessere, non erano già politici, nel senso classico del termine, ma personaggi che avevano della politica una visione strettamente mercantile. I loro eredi, che vediamo oggi litigare sul piccolo schermo o che ci rivolgono proclami dalla rete, ci trattano come già facevano loro: non come cittadini, ma come pubblico da intrattenere, a forza di strilli o di roboante retorica, e cui vendere il marchio del proprio partito, come se fosse quello di un prodotto. La stessa moltiplicazione delle sigle politiche, frutto inaspettato della fine della contrapposizione tra blocchi, sembra essere dovuta, più che nella diversità di programmi e ideali, all’applicazione di una lezione che arriva dal mondo del commercio, dove una pluralità di prodotti di nicchia (e tali sono molti nostri partiti) permette di conquistare quote più ampie di mercato, e con una clientela più “fidelizzata”, di quanto non possa fare una sola grande marca.

Non farsi carico dei problemi dell’intera società, ma solo delle esigenze di questo o quel piccolo gruppo, è il contrario di quel che dovrebbe fare la politica? Certo, ed è proprio perché ci siamo lasciati abbindolare da chi parlava d’altro, che degli interessi generali del paese, oltre ad aver dato fiducia a chi del politico non aveva proprio nulla, che il nostro sistema è arrivato alla bancarotta.

Sono considerazioni di cui dovremmo tener conto, mentre abbiamo la tentazione di cercare nuovi imprenditori/attori cui affidare il governo del paese e nuovi movimenti, magari progettati a tavolino come merendine o successi discografici, cui dare il nostro voto. 

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