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La crisi, il lavoro e il potere d’acquisto

La crisi italiana che ha portato il governo a una manovra da 25 miliardi e sacrifici per "tutti" (?) è l’ennesima riprova che la politica sociale attuata in Italia dal 1990 in poi risulta dannosa, sia alla popolazione, sia all’industria.

La crisi, il lavoro e il potere d'acquisto

Cosa c’entra la crisi con la politica sociale? Si domanderanno in molti. All’apparenza niente, ma se andiamo in profondità nel tessuto socioeconomico, risulta evidente che il disastro a cui stiamo andando incontro deriva dalla discontinuità della politica della seconda repubblica rispetto alla prima. Fino agli anni ottanta, la politica socioeconomica era improntata su una distribuzione del reddito, o comunque esso veniva distribuito in base a criteri che cercavano di salvaguardare la capacità economica di quasi tutti gli italiani.

Questo anche grazie alle lotte operaie per un lavoro più sicuro e per stipendi più equi, che permettessero di poter acquistare quei prodotti necessari, non solo a loro, ma anche al sistema produttivo. Questo, assieme al lavoro a tempo indeterminato – che permetteva di avere un reddito sicuro -, al turnover – che permetteva un ricambio costante del personale e pertanto agevolava anche la riduzione dello stesso qualora l’azienda ne avesse bisogno – e al pensionamento di anzianità - che permetteva all’azienda di diminuire il personale senza licenziare, e al lavoratore di uscire (ma non obbligatoriamente) prima che diventasse poco produttivo e che l’azienda stessa cercasse di dimetterlo anzitempo con procedure costose per lo stato (prepensionamento). Inoltre, la rivalutazione periodica dello stipendio (scala mobile o contingenza), dava accesso al lavoratore a prestiti bancari senza il rischio di insolvenza.

Col venir meno di queste regole, è venuta meno anche la certezza e, di conseguenza, è scomparsa anche la possibilità, per gran parte della popolazione, di acquistare e investire; questo ha portato a un regresso dell’occupazione fissa e alla creazione (grazie alla legge Biagi) di una schiera di lavoratori a tempo determinato che sono da considerare, a tutti gli effetti, lavoratori precari; il che ha peggiorato ulteriormente la situazione. Considerando che le tasse si basano anche sulle persona reali (ad esempio i dipendenti) abbiamo meno lavoratori = meno tasse = meno entrate. Il risultato è il divario tra Pil e spese.

Da quanto detto sopra, risulta chiaro il nesso tra l’economia basata sul consumo e la possibilità della popolazione di acquistare i prodotti dell’industria; il lavoro del terziario tiene finché l’industria produce ricchezza, ovvero, finché l’industria mantiene l’occupazione e distribuisce ricchezza (non intesa come quantità, ma come potere di acquisto dei salari), ma se l’industria non produce ricchezza, viene meno il presupposto del consumismo e, di conseguenza, anche i settori del terziario cedono.

Certo, è vero che ci sono altri fattori di crisi quali: speculazione finanziaria, evasione fiscale, lavoro nero, speculazione edilizia, sprechi ecc., ma va considerato che questi fattori “vivono” della ricchezza prodotta e della capacità di acquisto dei cittadini senza la quale, forse non esisterebbero neanche.

Per concludere, se non si ripristina l’occupazione piena e la produzione, a poco serviranno i “risparmi”: a prevalere sarà una diffusa povertà del cittadino (povertà che va al di la della quantità di stipendio perché esso è legato ai prezzi, di fatto si innescherà una svalutazione della moneta).

Ma come arrivare alla piena occupazione se l’industria non riprende la produzione? Una ripresa che è legata, purtroppo, alla finanza mondiale e non più alla capacità produttiva e alla qualità del prodotto?

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