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La competizione globale e la libertà d’impresa

 
Il Ministro dell’Economia ha più volte, in questi giorni, manifestato la volontà politica di procedere ad una riforma costituzionale per assicurare la libertà di impresa, oggi intralciata da un’ingombrante normativa fatta di permessi, autorizzazioni, controlli. Il ragionamento di Tremonti è questo: in un sistema globalizzato le imprese, per essere competitive, devono essere libere da lacci e lacciuoli consentiti dall’art. 41 e dall’art. 118 della Costituzione, che vanno dunque riformati. Dunque libertà incondizionata per l’impresa, che trova limiti al proprio operare solo in una specifica previsione normativa. In sostanza l’impresa è libera di fare ciò che non è espressamente vietato.
 
Ma la libertà d’impresa è già prevista nell’art. 41 della costituzione. E allora che significa liberare l’impresa dai lacci e lacciuoli dell’art. 41 e 118. Significa la deroga ad ogni controllo, ad ogni direttiva, ad ogni autorizzazione? Si vuole generalizzare il modello della protezione civile? E sul piano delle relazioni industriali si vuole il modello Pomigliano, l’autoritarismo imprenditoriale e la subordinazione incondizionata dei lavoratori? E quando tutto ciò si è realizzato i problemi saranno risolti, le imprese saranno in condizione di affrontare il mercato globale?
 
Dubbi, interrogativi, ma una cosa è certa, la risposta ipotizzata da Tremonti ai problemi dell’attuale competizione, che è competizione globale, non è condivisibile. E’ una soluzione ancorata alle logiche della concorrenza multidomestica. Ma noi viviamo in una società globalizzata e le imprese affrontano la competizione globale, che è competizione sistemica.
 
La competitività in un sistema globale non è atomistica, frazionata, delle singole imprese, come quella di una società multidomestica, ma è la competitività del sistema paese. Fiat, Enel, Eni ecc..., se vanno sul mercato da sole, se non oggi domani, sicuramente soccomberanno. Occorre che esse siano accompagnate da un Paese ben scolarizzato,che investe in ricerca,in infrastrutture specie quelle informatiche,definisce una giustizia rapida, e semplifichi il sistema decisionale delle istituzioni ecc. In sostanza un Paese dove vi sia lo sviluppo dei fattori competitivi e l’utilizzo ottimale delle risorse a partire dal mezzogiorno che rappresenta il 40% delle risorse nazionali. E tutto ciò è un problema dello Stato, più che delle imprese. Cosi come problema dello Stato è assicurare un gioco di squadra tra le strutture economico/sociali del Paese e quindi la concertazione tra capitale, lavoro e istituzioni in cui ciascuno faccia la sua parte: le istituzioni con la predisposizione dei i fattori competitivi di competenza statale, la semplificazione del proprio sistema decisionale, la predisposizione delle infrastrutture, la valorizzazione della risorsa lavoro.
 
Le imprese con la flessibilizzazione della struttura produttiva, logistica, distributiva, finanziaria, di marketing aziendale e di ricerca, per essere prontamente reattive all’evoluzione del mercato in termini di nuovi e qualificati prodotti e di servizi collegati al prodotto medesimo,con la concentrazione delle risorse nei settori competitivi.
 
I lavoratori con la disponibilità ad un adeguamento alle congiunture dell’impresa in termini di qualificazione e flessibilità, ma anche in termini di legame più stretto tra produttività e salari contro l’assenteismo, e di rappresentanza unica in sede di contratto contro scioperi ingiustificati.
 
Prima di intervenire sull’art. 41, lo Stato intervenga sulla scuola, le infrastrutture informatiche ecc perché Il problema che abbiamo oggi non è la fertilità aziendale, la nascita comunque e dovunque di nuove imprese. Il problema che abbiamo oggi è la nascita di nuove aziende in settori competitivi, e la chiusure di quelle operanti in settori non competitivi. Il tutto in un quadro politica industriale basata su una nuova suddivisione internazionale del lavoro, che comporta il disimpegno dai settori in cui non abbiamo un margine competitivo e la concentrazione di risorse e impegno in settori in cui abbiamo margine competitivo.
 
Si tratta in sostanza di orientare la nascita di nuove aziende nei comparti dove siamo vincenti, di sviluppare la competitività dove possiamo vincere,e di accompagnare la chiusure di quelle operanti in settori dove siamo perdenti.
 
Altro che marginalizzazione dello Stato, incombe la necessità di concepire un nuovo intervento pubblico nell’economia fondato su una nuova politica industriale e sulla coordinamento statale di istituzioni lavoratori ed imprese.
 
La globalizzazione ha allargato al modo intero il perimetro competitivo, quindi mercati più ampi e concorrenza più agguerrita dove sopravvivono solo le imprese più forti.
 
Ciò significa due cose: la prima, l’impresa quando compete non può far leva solo su uno o due fattori competitivi, ma su tutti i fattori competitivi che devono essere ottimizzati.
 
La seconda: l’impresa non può andare da sola sul mercato,ma come parte di una squadra composta istituzioni, imprese e lavoratori, raccordata e coordinata dallo Stato.
 
Su questa base diventa limitativo e fuorviante far riferimento al solo fattore competitivo della libertà dell’impresa, segnatamente quando esso incide sulla fertilità aziendale più che sulla crescita delle imprese.

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