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La banalizzazione del male

Tra tutte le numerose cerimonie a cui ho partecipato, pochi momenti sono più significativi del minuto di silenzio, scandito dalle sirene, celebrato ogni anno in Israele e in varie comunità ebraiche nel mondo, anche in Italia. Un raro momento in cui la solitudine trova un senso e i pensieri corrono simultaneamente verso un’unica direzione. [...] Con le parole mai espresse, i segreti, i silenzi, i fantasmi presenti ovunque, la memoria della Shoah è stata trasmessa da una generazione “vittima” alla seconda, terza e quarta generazione altrettanto “vittima”, anche se in forma diversa.
Una memoria tramandata ed espressa in silenzio, un’iniziativa non ancora proposta a livello nazionale e internazionale, sarebbe il più forte e intenso momento di condivisione, invece di tante cerimonie, tweet, instagram e parole a vanvera.

Sivan Kotler, Internazionale 21/01/2014

Non è facile sviluppare una riflessione per la Giornata della Memoria senza rischiare di scadere nella retorica, se non nella banalità. Parto però da un punto fermo: ricordare la Shoah ha senso solo superando la liturgia delle frasi di circostanza per prendere coscienza che l'orrore di quegli anni bui, presto archiviato sotto il sacro comandamento del "Mai più", si è comunque ripetuto (in Ruanda) e potrà ripetersi ancora se non ci sarà qualcuno (cioè noi) ad impedirlo. Altrimenti il 27 gennaio non resta che una data cerchiata in rosso sul calendario. O un palcoscenico per le nostre consuete, sterili polemiche.

Il Novecento è stato il secolo dei genocidi. Quello degli Armeni è stato solo il primo; quello degli Ebrei/Rom-Sinti/omosessuali/Testimoni di Geova/disabili, di cui ogni 27 commemoriamo il (parziale) ricordo, solo il più conosciuto; quello del Ruanda, solo l'ultimo. Troppe volte il tanto declamato “Mai più” è stato travolto dal fiume in piena degli eventi, e anche l'Italia ha le sue pagine nere (alzi la mano chi ha mai sentito parlare di Fenestrelle). Auschwitz e gli altri campi di sterminio non nacquero dal nulla. Ora che quei luoghi sono relegati ad una mera funzione monumentale, sarebbe importante capire come e perché nacquero. E non è facile. Tanto più è ridondante la commemorazione di un dramma quanto più è superficiale l'indagine delle condizioni che lo provocarono. Ne discende una concezione di memoria piuttosto lacunosa, in balia di interpretazioni talvolta dalle basi vacillanti e dunque vulnerabile agli assalti del revisionismo.

Non pensiamo che quest'ultimo faccia parte del passato. Il vuoto di valori tipico del nostro tempo, complice il senso di sfiducia verso ogni forma d'autorità nonché una immotivata diffidenza per l'insegnamento tradizionale, viene colmato da ideologie e proclami che dinanzi ai difficili problemi della modernità sembrano offrire soluzioni facili. Laddove manca una corretta educazione (cioè: trasmissione di valori), quel vuoto viene riempito attraverso altri canali e con altri contenuti. Tutto viene banalizzato, relativizzato, ridotto a stereotipo, ed è allora "normale" che un direttore di giornale col dente avvelenato per i risolini della Merkel al suo editore-padrone non trovi di meglio che titolare a nove colonne “A noi Schettino, a voi Auschwitz”. L'inaffidabilità degli italiani a cui si ribatte con le colpe storiche dei tedeschi. Luogo comune per luogo comune. Se per voi questo è progresso...

Non mancano convegni che definiscono il 27 gennaio il "Pesce d'aprile ebraico". E non mancano poi altri episodi, come dire, sconfortanti.

Abbiamo un noto uomo politico pluricondannato e processato i cui figli si sentirebbero perseguitati come gli Ebrei nella Germania nazista.

Abbiamo i cartelli inneggianti Arbeit Macht Frei per protestare contro un provvedimento dell’ENAC.

Abbiamo la provincia che promuove "Il lavoro rende liberi" come slogan dei propri programmi occupazionali.

Abbiamo un altro uomo politico che definisce l'euro crimine contro l'umanità.

Abbiamo il presidente della regione Toscana che in merito alla tragedia di Prato afferma che i lavoratori cinesi "vivono e lavorano in soppalchi che ricordano quelli di Auschwitz”.

Abbiamo un illustre matematico e divulgatore scientifico secondo cui l’esistenza delle camere a gas è una questione di opinione, dal momento che tutto ciò che abbiamo in mano è quanto ci è stato fornito dal "ministero della propaganda alleato" - qui la risposta di un lettore, merita di essere letta.

Abbiamo un ministro dell'Istruzione per cui il viaggio della Memoria ad Auschwitz pare più che altro una gita scolastica da condensare nei 140 caratteri di un tweet, con annessa foto sorridente.

Non va meglio in Francia, dove una ditta ha battezzato il suo nuovo detergente Cyclone B.

I tedeschi - che di Auschwitz portano ancora il peso - sono coscienti che una semplice Giornata della memoria non è che puro simbolismo, formalità, comunque insufficiente ad arginare il ritorno dell'antisemitismo. Nel 2015 ricorrerà il 70 esimo anniversario della morte di Hitler, con la scadenza dei diritti d'autore sul Mein kampf, che sarà dunque ripubblicabile a piacimento. Un problema che a Berlino cominciano a porsi.

Noi italiani, invece. ci limitiamo al rituale del ricordo senza approfondire alcuno spunto di riflessione. Non sarebbe la prima volta: si vedano le celebrazioni dei nostri 150 anni. Drammatico, se pensiamo che la nostra generazione sarà l'ultima ad ascoltare la testimonianza della Shoah dalla viva voce di coloro che l'hanno vissuta. L'ultima che avrà l'onore - e l'onere - di conoscere la Verità leggendola non tanto sui libri quanto negli occhi dei sopravvissuti.

Noi dobbiamo ascoltare quella Verità. Abbiamo il dovere di leggerla, conoscerla, custodirla. Prima che vada persa. Allora il 27 gennaio, la Giornata della Memoria, non resterà che una data cerchiata in rosso sul calendario. E ahimè tanto ci basterà per sentirci a posto con la coscienza.

Ieri Hannah Arendt ci raccontava la banalità del male; oggi assistiamo alla sua banalizzazione. Sarà brutto il negazionismo, ma la banalizzazione è molto, molto più pericolosa.

 

* Articolo originariamente comparso su Val Vibrata Deal

Foto: Ted Eytan/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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