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La Strage di Piazza Fontana: il "botto" (Seconda Parte)

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Era quasi Natale. Era il 12 dicembre del 1969. E c'era un edificio, un palazzo che si affaccia su piazza Fontana ove risiedeva la Banca Nazionale dell'Agricoltura. 

Piazza Fontana stava (e si trova ovviamente tuttora) a metà strada tra via Festa del Perdono, caposaldo del movimento studentesco e piazza San Babila, ritrovo dei gruppi giovanili fascisti. E poi, in piazza Fontana, nel '68, ci fu l'occupazione dell'albergo Commercio, proprio di fronte alla banca. Fu occupato dagli studenti ma anche da una miriade di associazioni. Venne sgomberato il 16 agosto 1969.

In via Larga ci fu l'incidente che provocò la morte di Annarumma, un giovane celerino che fu preso come simbolo dai fascisti e in qualche modo fu "la miccia" che fece azionare il detonatore. I reazionari reclamavano qualcosa. E quel qualcosa fu a sua volta la "spinta morale" che portò alla "soluzione finale" da parte degli strateghi della tensione

 

Il Potere, quel meccanismo composto da varie dentellature, si doveva in qualche modo "auto-conservare". D'altronde qualche giorno prima della strage, i quotidiani inglesi "The Observer" e "The Guardian" pubblicarono un documento interno del Servizio segreto greco (ricordiamo che in Grecia si era appena instaurato il regime dei colonnelli) nel quale si parla di una rete militare clandestina in Italia pronta a promuovere un colpo di Stato.

Ma ritorniamo a Milano.

La Banca era una di quelle grandi, aveva quasi trecento dipendenti. Era un venerdì quel maledetto giorno. E c'era un giovane funzionario, Fortunato Zinni (attualmente sindaco di Bresso) che suo malgrado divenne l'unico testimone della strage

Quel giorno si trovava dietro lo sportello delle contrattazioni, ed erano passate da poco le 16 e 30 che lasciò lo sportello e salì al piano rialzato, quando udì il grande botto (uno solo, che qualcuno lo dica al giornalista Paolo Cucchiarelli che manda in giro l'ipotesi della doppia bomba per far riaffiorare quella “pista anarchica” sconfitta dalla storia) e si ritrovò disteso almeno cinque metri più avanti, verso la porta della saletta. E all'istante vide solo un gran buio.


Fortunato Zinni in seguito si adopererà nel seguire tutto l'iter del processo per la strage; ma rimarrà, come tutti i familiari delle vittime, deluso dall'esito. E scriverà un libro dal titolo eloquente:" "Piazza Fontana. Nessuno è Stato".

L'Autorità giudiziaria non ha concluso il suo compito anche se c'è stata la sentenza della Cassazione del 2005: i familiari delle vittime di piazza Fontana, con nuovi documenti e dichiarazioni spontanee, hanno diretto alla Procura di Milano una motivata richiesta di riapertura delle indagini. Eppure la Procura di Milano non ha in alcun modo risposto alla ri­chiesta dei familiari: è rimasta muta, non ha mandato alcun segnale di impegno anche se sarebbe costato poco.

La verità storica è chiara: la strage del dicembre '69 doveva essere il detonatore che avrebbe consentito a determinate autorità politiche e militari la proclamazione dello Stato d'emergenza. Per fortuna non è successo, per merito del Presidente Rumor che stranamente (e per fortuna) non la proclamò, ma accadde altro in compenso e lo capiremo nei prossimi capitoli.

 

Non fu l'unica bomba: un'altra fu posta (per fortuna inesplosa) alla Banca Commerciale di piazza della Scala. Quello stesso giorno ne scoppiarono altre tre senza per fortuna provocare altre morti, ma a Roma: una alla Banca Nazionale del Lavoro in Via Veneto, una vicina al Sacrario del milite ignoto e un'altra, sempre all'Altare della Patria, ma sui gradini che portano al Museo del Risorgimento.


Cinque bombe, ma solo una fece il massacro uccidendo diciassette persone (quattordici sul colpo) e ferendone altre ottantotto. 

 

 

Ma avrà l'effetto "collaterale" di provocare la diciottesima morte; ovvero quella di un anarchico ignaro, quel giorno maledetto, di tutto: Giuseppe Pinelli. E questa è una storia tutta da raccontare nel prossimo capitolo.

Continua...

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