• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > La Signora della Vita e la danza delle antiche fanciulle

La Signora della Vita e la danza delle antiche fanciulle

Oggi è l’otto marzo, giornata della donna. E siccome sono come sempre in ritardo, se mi va bene questo articolo mi sarà pubblicato il nove. O il dieci. O chissà quando. Pazienza.

Volevo scriverlo proprio oggi perché oggi, all’incontro di presentazione del libro di un amico, mi è venuta all’improvviso la voglia di ricordare un antico racconto.

Ma prima bisogna ricordare anche che le donne, si sa, da tremila anni sono considerate esseri inferiori rispetto ai maschi. Per questo oggi regaliamo mimose (sperando che non ce le sbattino in testa). E' dal racconto di Adamo ed Eva, mille anni prima di Cristo, è da quei tempi che la donna deriva dall’uomo, come dirà poi l'apostolo Paolo (e con lui Santa Madre Chiesa). E quindi che stesse zitta e buona da una parte. A fare figli e pulire casa. Cosa che in effetti è accaduta e si è protratta fino alle soglie di questo secolo (e oltre).

Però, se si va indietro nella storia, si scopre che in un mito sumero più vecchio di un altro paio di millenni, c’è la storia di un tizio che, in barba ai divieti, trasgredì e si mangiò le piante proibite cresciute in un giardino bellissimo, dove non esistevano né dolore né caducità. Se le mangiò attirandosi le maledizioni della grande Dea che lo condannò a morte senza por tempo in mezzo e poi se ne andò sbattendo la porta. Donne !

Poi però successe qualcosa, qualcosa di non chiaro, c'è di mezzo una volpe magica che forse agì da mediatrice. Chissà. Fatto sta che al trasgressore rantolante venne condonata la pena e furono create delle giovani dee (che, maschilisticamente, m’immagino sinuose e assai graziose) apposta per curare le parti ferite del suo corpo martoriato; chi si occupava della testa, chi delle gambe, chi delle braccia.

E poi ci fu la dea che doveva curare la sua costola spezzata. Nin-ti, la Signora della Costola, perché Nin in sumero significava Signora e ti significava costola. Ma ti voleva dire anche “vita”, così la Signora della Costola era anche la Signora della Vita. Quella che dava vita al morente.

Un semplice gioco di parole in una lingua ormai perduta che è andato perduto anch'esso, lasciandoci tutti straniti a chiederci perché mai dio avesse creato la donna proprio dalla costola di un uomo.

Questo racconto ci dice che era la donna a dare la vita all’uomo nei più antichi racconti della storia umana; non viceversa come ci è stato raccontato dopo. Ma ci dice anche che la Signora della Vita non era una madre, non era la Grande Madre dei miti che conosciamo. Questa giovane dea ri-dava la vita a un pover’uomo che per chissà quale ragione, ma certo per una sua colpa, se l’era giocata.

Agli albori della storia: i primi campi coltivati, le prime canalizzazioni, i primi insediamenti urbani, le prime mura. Anche i primi conflitti documentati e tramandati. E la scrittura, la prima scrittura della storia umana. Capite che cosa stava succedendo?

L’umanità si stava civilizzando e l’uomo perdeva se stesso; il maschio della specie, si era giocato qualcosa di terribilmente serio. E ne era consapevole perché ce lo ha raccontato che gli stava sfuggendo quel senso meraviglioso di essere immortale che la sua giovanile e spensierata vitalità da vagabondo nel mondo gli aveva dato fino ad allora.

Si era giocato tutto nel produrre di più e meglio e rantolava, condannato ad incartapecorirsi, a deperire in un angolo buio e freddo. Il suo lamento di dolore, il dolore di scoprirsi debole e colpevole di non saper più vivere, per aver mangiato le erbe che lui stesso aveva imparato a 'domesticare' e poi coltivato con il sudore della fronte. Il dolore si percepisce in questo mito dei tempi che furono.

Il cammino della civiltà era cominciato, ma l’uomo sentiva di essere sul punto di perdere quanto di più prezioso aveva nel fondo dell’anima. E che solo la donna poteva salvarlo. Solo la donna poteva ridargli la vitalità, l’ardore, la passione, la forza, il senso della vita. L'uomo ancora lo sapeva e lo raccontava; ancora non aveva compiuto il misfatto di invertire il mito e di rovesciare sulla donna la colpa di una sua presunta inferiorità, pur di sentirsi di nuovo forte e invincibile.

In questo incontro, durante la presentazione di questo bel libro, si sono ricordate cose così, cose antichissime. Le pitture rupestri, che molti dicono disegnate con sofisticata raffinatezza dalle donne in attesa nelle grotte o lungo i fiumi, circondate dai piccoli, sempre con l'ultimo arrivato attaccato al seno; donne artiste che dettagliavano con incredibile cura i profili dei dorsi e dei musi degli animali selvatici, osservati di soppiatto, ma con estrema attenzione, forse quando erano ancora ragazzette al seguito dei gruppi in caccia, intruppate silenziose e un po' impaurite con i compagni di giochi e di apprendistato. Tutti lì con gli occhi sgranati e il fiato sospeso a guardare i grandi uomini e i grandi animali combattere per la vita.

E si è parlato dell’affettuosità delle donne dei raccoglitori e della libertà dei loro figli. Si sono respirate le atmosfere rarefatte delle sperdute valli dell’Afghanistan che se lo chiami Bactriana la mente ti vola via in tempi perduti nei millenni. Rivedi i Buddha di Bamyan prima che i talebani li abbattessero a cannonate. Immagini la Transoxiana di Samarcanda, di là dai monti coperti di neve. Le carovane, i caravanserragli.

Per poi volare in Africa a sentire il caldo del deserto; a odorarne le erbe tremule nel ronzio continuo delle mosche e ad aspettare l’improvviso silenzio del tramonto brusco, per poter osservare le miriadi di stelle. O la stessa luna bianca e rotonda che duemila anni fa qualcuno e tremila anni fa qualcun'altro e prima ancora altri e altri guardavano ammaliati e sempre sorpresi, proprio come noi oggi. Il tempo dell'uomo e il tempo della natura.

E immaginare le seducenti ragazze, dipinte sulle rocce di Jabbaren, ballare nude ad un ritmo cadenzato di legni, di pelli tese e di mani. E ammirare le incredibili costruzioni di terra, di sale, di legno delle case e delle moschee di un mondo che parla di miti, non di concetti; di suggestioni, non di calcoli. Ma che è perfetto nell'armonia delle forme e nella sapienza costruttiva.

Dal primitivo alla modernità e di come conciliare un passato d’oro e di sabbia con un futuro tutto da inventare. Per sfuggire alla macchina stritolante di un modernismo implacabile che lascia già il segno dei suoi denti anche nella carne viva di luoghi lontani, che sembravano immuni dalla logica dell'occidente calcolatore. Che a forza di calcoli si è già divorato le nostre città, lasciandoci solo piccoli nuclei di armonia nei cuori delle città vecchie.

Di tutto questo si è parlato oggi, e questo si respira nella pagine di questo libro, ricchissimo di immagini e di idee, parto di Ugo Tonietti, architetto, viaggiatore, acuto osservatore e appassionato narratore (insomma, un gran chiacchierone).

Consigliato: L’arte di abitare la terra, L’Asino d’oro edizioni.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares