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La Santería cubana: l’aspetto antropologico

Per poter comprendere la cultura e le tradizioni di Cuba, dopo aver consultato i molti articoli trovati sul Web, ero ancora confusa e ho cercato qualche libro significativo, la maggior parte dei quali, ormai fuori catalogo. 

Di Patrizia Boi

L’Oricha Yemayá

È stata fondamentale per mettere un poco di ordine alla questione, l’opera dell’antropologa ed etnomedico dell’Università di Perugia, Giuliana Muci, che si è dedicata al tema della santería cubana fin dai tempi della sua tesi universitaria. Nel libro La santería cubana – Aspetti teorici, mitologici e rituali, la Muci, pugliese di nascita, originaria di Nardò, prima di addentrarsi nel tema specifico della santería, rammenta i grandi antropologi italiani che si sono occupati dei culti di possessione nel mondo mediterraneo, come Ernesto De Martino che ha studiato il tarantismo pugliese e la magia nel Sud, e come il suo successore Tullio Sepilli che ha vissuto in Brasile dove ha potuto conoscere il candomblé , l’altra religione di origine yoruba - proveniente dal sud- ovest della Nigeria -, con una mitologia e modalità rituali simili alla santería, nonostante i due paesi si trovino a grande distanza geografica e parlino uno in spagnolo, l’altro in portoghese.

Un altro contributo imprenscindibile secondo la Muci è stato quello dell’antropologo, etnomusicologo e saggista cubano, Fernando Ortiz Fernández (L'Avana, 16 luglio 1881 – L'Avana, 10 aprile 1969), profondo conoscitore e appassionato studioso della cultura afrocubana, che ha trasformato il concetto di acculturazione - che presume ci sia un dominante da cui si “accultura” un dominato -, in “transculturazione”, dove il passaggio culturale da una tradizione all’altra è paritetico, ossia si attua una contaminazione reciproca.

Anche l’apporto degli studi delle moderne neuroscienze consente di «mettere insieme ciò che per secoli è stato separato: la mente, conscia e inconscia, sede delle emozioni, del pensiero, delle facoltà intellettuali, della creatività, della filosofia, della metafisica e della trascendenza; il corpo, espressione fisica dell’essere, col suo linguaggio metaforico e gestuale oltre che verbale». Secondo il Dottor Paolo Lissoni, esperto di P.NE.I., Psico-Neuro-Endocrino- Immunologia, è possibile proiettare «la mente del Terzo Millennio verso una riconciliazione tra Filosofia, Teologia e Biologia, ponendosi in questo modo a sola vera visione olistica della vita rispetto alla quale è da considerare come artificiosa ogni altra forma di Olismo».

Queste premesse sono utili per comprendere come durante i riti di
possessione e trance mistica tipici della santería cubana, spesso
stimolati dalla musica, la danza e il canto - che hanno una funzione
eccitatoria -, dallo stimolo cromatico e olfattivo attraverso erbe
aromatiche, si possa condurre il credente a un momento di
“sospensione spazio-temporale”, rompendo gli schemi ripetitivi della
quotidianità, le regole sociali predeterminate e lasciando il posto
alla sfera creativa dell’individuo. Il rito, altresì, tende «a fornire
strumenti di risposta che garantiscono la sopravvivenza della
collettività relativamente alle problematiche inerenti la loro realtà».
Insomma questi sistemi spesso «hanno il compito di proteggere e
orientare gli individui e le comunità», oppure sono utili a «sciogliere
le paure che ci ingabbiano, sia che provengano dalle quotidiane
difficoltà del vivere sia che appartengano alla sfera inconscia».

Bisogna considerare che il termine santería assume spesso
un’accezione negativa, come se quest’affollamento di Santi venerati
dai fedeli rappresentassero comportamenti che la ragione non può
accettare e comprendere. Se noi andiamo a scandagliare, invece,
il senso del rito e le motivazioni che muovono questo mondo
frastagliato di dei, possiamo comprendere le ragioni per le quali da
un suggestivo processo di fusione culturale siano nati culti magico-
religiosi afroamericani come la Santería cubana o Regla de Ocha o
Culto de Ifá, come il candomblé brasiliano o il vodu haitiano.
In questa dinamica di “sincretismo religioso” c’è una
contaminazione reciproca tra religione degli schiavi africani
deportati e quella cattolica dei coloni bianchi, anche se la necessità
primaria degli schiavi è stata quella di occultare - sotto le mentite
spoglie dei Santi venerati nel mondo Cattolico - il fondamento della
loro religione yoruba , incentrata sulla credenza in un pantheon di
divinità chiamate Orichas e sul culto dei morti. È da notare, inoltre,
che la contaminazione cattolica è legata a una cultura popolare che
ha assorbito le «credenze legate al mondo magico e a residui di
paganesimo rituale».
Con molta fantasia, spesso difficile da comprendere senza
forzature, i fedeli hanno trovato corrispondenze tra gli Orichas
yoruba e i santi cattolici creando nuove figure divine, ossia “i
santos”.
Rammentiamo che a Cuba gli schiavi provenivano dalle popolazioni
yoruba della Nigeria che giungevano nelle Americhe privati dei
propri diritti e trasportati, «alla stregua del bestiame, nelle stive
delle navi negriere dopo terribili raid condotti nei villaggi di
appartenenza» - come afferma Laura Monferdini - condotti nell’Isla
per la lavorazione della canna da zucchero e per la coltivazione del
tabacco, mentre le differenti popolazioni amerindie autoctone, erano
state decimate nel giro di un secolo dalle condizioni di lavoro
proibitive imposte dal regime coloniale e dalle malattie europee a
loro sconosciute. Lo schiavismo è stato abolito solo nel 1896 e due
anni dopo a Cuba è stata proclamata l’indipendenza, dopo la quale

gli schiavi sono stati liberati anche se hanno continuato a subire
persecuzioni razziali ancora per lungo tempo.
È da considerare che già nei primi anni della deportazione in
massa, gi schiavi di etnia afrocubana erano stati sradicati dalla loro
terra e dalla loro cultura, vivevano condizioni di vita e sfruttamento
tremende, per cui hanno avuto l’esigenza di associarsi per
provvedere ad una sorta di mutuo soccorso: a questo scopo
nacquero i Cabildos, Associazioni che offrivano uno spazio logistico
per ricostituire la propria cultura di appartenenza, praticando, nel
contempo la propria religione.
Attualmente Cuba conta una popolazione di oltre 11 milioni di
abitanti, composta da diversi gruppi etnici, la maggior parte
discendenti degli spagnoli. I bianchi, infatti costituiscono circa il
64,1% dell'intera popolazione. I neri, i cui antenati provengono dai
paesi africani della regione sub-sahariana, rappresentano una
minoranza pari al 9.3%, mentre i mulatti che derivano dalla loro
mescolanza, costituiscono ben il 26.6% dei Cubani. Dei Nativi è
rimasto solo qualche sopravvissuto dopo lo sfruttamento brutale
della manodopera indigena giustificata – secondo la versione
ufficiale della Storia – dalla loro natura selvaggia di esseri dediti alla
antropofagia e all’incesto: quelli che non morirono di stenti e
malattie, preferirono ricorrere al suicidio per sfuggire ai
maltrattamenti dei colonizzatori. Le comunità bianche, nere e
mulatte di Cuba, oggigiorno - finalmente dopo secoli di convivenza
di questa mezcla - si sono integrate bene per formare una società
coesa.
Il nome "Cuba" deriva dal temine Cubanacán (che significa "terra
centrale"), o Cubao ("terreno fertile"), o ancora dalla contrazione di
due parole: Coa ("terra") e Bana ("grande") con il significato quindi
di "Grande terra", la Isla Grande che tutti accoglie.
Laura Monferdini in “La santería cubana” (Xenia, tascabili, Pavia,
2016), descrive poeticamente Cuba: «Isola del flusso delle correnti
del Mar dei Caraibi, adagiata su acque cristalline dove l’azzurro del
cielo si fonde con le diverse tonalità dell’oceano in un insolito

impatto di rara bellezza, la maggiore delle isole delle Antille vive la
sua condizione di apparente privilegio, splendidamente isolata dal
resto dei paesi dell’area circostante».
Nonostante le sue enormi bellezze, il paese è ancora soggetto a
miseria e sofferenza a causa di “ el bloqueo ”, un embargo 
commerciale, economico e finanziario imposto dagli Stati Uniti
d'America contro Cuba all'indomani della rivoluzione castrista,
avvenuta il 17 maggio 1959. Eppure l’estro creativo dei cubani nel
campo artistico è sopravvissuto a ogni condizione avversa: nel
campo musicale infatti raggiunge vertici esplosivi fondendo gli
ancestrali ritmi africani con le melodie della vecchia Europa,
attraverso cui ha dato vita a « son », «rumba», «trova» e «salsa».
Come afferma sempre l’Ortiz nell’opera pubblicata nel 1965 dalla
Editoría Universitaria, La Habana, “La Africanía de la música
folklórica de Cuba”: «La storia di Cuba è nel fumo del suo tabacco e
nella dolcezza del suo zucchero, ma anche nel ‘ sandungueo ’ della
sua musica. E nel tabacco, nello zucchero e nella musica, stanno
insieme bianchi e neri, nello stesso turbine creativo, dal XVI secolo
fino ad ora. Bianco, zucchero e chitarra; nero, tabacco e tamburo.
Oggi sincresi mulatta, caffè con latte e ‘bongo’».
Per quanto concerne la Regla di Ocha o Santería, essa
rappresenta quel complesso sistema di credenze magico-religiose
che individuano negli Orichas delle divinità intermediarie tra gli
uomini e la divinità suprema, che - al pari dell’Olimpo degli dei greci

- , sono spesso capricciose e mutevoli esattamente come gli esseri
umani. Nel culto degli antenati, un tempo, erano assimilate a un
fiume o a una montagna, mentre una volta sradicate dai loro paesi
di origine, hanno perduto ogni caratteristica legata al territorio per
diventare una generica rappresentazione delle forze naturali. Sono
figure con fattezze antropomorfe, che possiedono allo stesso tempo
le qualità e i difetti umani. Ogni divinità è dotata di un Ashé, un
potere spirituale, riconducibile alla forza selvaggia dei fenomeni
naturali alla base delle credenze animistiche. In ogni Oricha,
oltretutto, convive al contempo il principio del bene e del male.
Esiste una categoria di sacerdoti che fungono da intermediari tra i
credenti e queste divinità: i santeros. Essi governano i riti di

possessione attraverso cui ottenere un consiglio o un aiuto dalla
divinità o “santo” prescelto, che, durante la possessione, penetra
nella loro testa, parla mediante la loro bocca e agisce attraverso il
loro corpo raggiungendo la trance mistica.
Sono stati essi stessi iniziati attraverso cerimonie come quella dei
“ tambor ”, i tamburi sacri. E anche i percussionisti addetti al rito sono
sacerdoti prescelti mediante funzioni religiose scandite dai
“ tambores ”. Le percussioni hanno una funzione così centrale che
ad esse viene riconosciuto persino un ruolo divino. Senza questi
strumenti, del resto, non si possono evocare le divinità: tamburi e
danze sono presenti in ogni rituale.
Ogni tamburo è dedicato a un dato Oricha: a Yemayá, la madre,
che danza ricordando il ritmo delle onde, è dedicato il tamburo più
grande, detto Yeá; a Ochún, dea dell’erotismo, che danza in modo
sensuale, è dedicato il mezzano, detto Itótele; a Changó, divinità
del fuoco e del tuono, che danza in modo violento e lussurioso,
come un guerriero, è dedicato il tamburo più piccolo, chiamato,
Okónkolo.
I santeros aiutano, dunque, i fedeli ad entrare in comunicazione con
i santi od Orichas, con delle pratiche propiziatorie durante le quali
attraversano momenti di trance e stati alterati di coscienza. Nel
rituale della possessione appare evidente la corrispondenza con gli
elementi naturali - ossia la perdita di coscienza, l’aumento dei battiti
cardiaci, la sudorazione -, ed elementi propriamente culturali,
ovvero una grande devozione al santo, perché in questi riti non si
usano droghe, ma solo tabacco e rum. Lo stato di estasi può
interessare sia il sacerdote, sia il fedele, nonché gli iniziati, che per
divenire tali devono prima sottoporsi ad un rito di passaggio. «Dopo
una morte rituale, segue un periodo di tempo in cui si diventa
“nulla”. Tabula rasa. È in questa fase che si imparano le complesse
ritualità, le cantiche, ma anche il modo di cadere in trance e offrire
sacrifici alle divinità». Dopo il rito si torna “in vita”, ma spesso con
differenti sembianze fisiche: a volte i credenti si rasano la testa.
Durante la possessione lo spirito della divinità invocata cavalca il
sacerdote o anche il questuante: il posseduto si comporta come la
divinità da cui è posseduto rivelando metodi o rimedi per superare
una data malattia, a volte tendendo a riequilibrare le componenti
psichiche maschili e femminili individuali.

Nel corso delle celebrazioni vengono fatte offerte agli Orichas per
ingraziarseli, spesso sono erbe e frutta, elementi legati alla natura,
qualche volta vengono sacrificati degli animali, polli e capretti, scelti
con cura, che vengono consumati dai credenti durante bacchetti
rituali. Ricordiamo che ad ogni Oricha sono associati determinati
elementi: colori, oggetti, animali, frutti, spezie, ortaggi, erbe.
Come afferma Giuliana Muci «Tutta una farmacopea è così
associata alla divinità, laddove il valore simbolico e magico dei
rituali si accompagna il più delle volte a una effettiva efficacia
terapeutica, denotando un’antica conoscenza. Non trascurando
ovviamente un effetto placebo, qui inteso non come indole ingenua
e credulona quanto come l’efficacia di un consolidato sistema di
credenze». 
Lo scopo principale di queste religioni resta comunque la ricerca
della felicità, senza comandamenti da seguire: il paradiso da
raggiungere è terreno.
I rituali sono molto complessi e articolati, scandiscono il ciclo di vita
delle persone, rappresentano i diversi gradini che i credenti devono
necessariamente salire per giungere a livelli di conoscenza via via
superiori, a partire dalla iniziazione alle Collane (Elekes) - dove
ricevono le prime cinque collane di protezione legate agli Orichas -;
per proseguire con la cerimonia di iniziazione ai Guerrieri
(Guerreros) - dove ricevono i simboli dei tre principali Orichas di
potenza superiore -; per arrivare alla complessa cerimonia
dell’Asiento in cui l’iniziato riceve il proprio santo - ; passando
attraverso l’Ebbó - ovvero le offerte alle divinità - ; alle Rogación –
ossia una serie di preghiere recitate alla presenza di un padrino o
madrina - ; imparando la pratica delle cerimonie sacrificali con
olocausti animali - ; apprendendo come entrare in contatto con gli
Eggun – gli spiriti degli antenati defunti e dei sacerdoti anziani - ;
per giungere, infine, all’Itutu – il lungo iter cerimoniale che si deve
svolgere quando muore un Santero.
Santeros e Babalawos non utilizzano la magia nera, usata solo dai
brujos, gli stregoni, che operano secondo La regla de Paolo monte,
un altro culto di possessione.
Come afferma sempre la Muci, «Per quanto all’interno della
santería si distingua tra magia bianca (trabajos buenos) e magia
nera (trabajos malos), tra piante impiegate para hacer bien e piante

adoperate para hacer mal, e per quanto la magia nera sia
comunemente rifiutata e socialmente stigmatizzata, spesso
quest’ultima rappresenta un mondo parallelo e complementare a
cui si ricorre in situazioni estreme; o come spesso affermano i
santeros: “per poter combattere la magia nera bisogna conoscerla e
talvolta utilizzare i suoi stessi sistemi”».
Dal sincretismo tra i trabajos (procedimenti rituali africani) e la
stregoneria della vecchia Europa, nasce la magia della santería che
è di pochi tipi, connotati in base all’obiettivo da raggiungere:
1) amarramientos, ossia ‘legature’, il cui scopo è di vincolare a sé
o ad altri una persona o la sua anima, oppure di allontanarla;
2) ebbós, ossia ‘offerte’, sacrifici alla divinità allo scopo di placar
la sua rabbia o chiederne l’intervento;
3) limpiezas, ossia ‘purificazioni’, per liberarsi da un’energia
negativa;
4) malefícios, ossia ‘malefici’.
A volte si può fare un maleficio spontaneamente attraverso il mal de
ojo, ovvero il malocchio.
Un cenno a parte meritano i sistemi di divinazione della santería,
che sono di quattro tipologie.
Il sistema divinatorio obi si serve di pezzi di cocco, usati come
offerta rituale donata agli Orichas e in onore degli antenati. Il
santero lancia in aria quattro parti di cocco e il responso viene
determinato a seconda della posizione, lato cavo o lato convesso,
che assumono sul pavimento.
Il sistema di divinazione caracoles utilizza la conchiglia: il santero
lancia 16 conchiglie e le interpreta in base al numero di conchiglie
cadute con la parte concava in alto e mediante una successione di
lanci.
Il sistema divinatorio ekuelé o collar de Ifá utilizza una collana fatta
di bucce di semi o medaglie di cocco formata da otto parti: riservata
al babalawo - la carica più elevata de la Regla de ocha, figlio
dell’ Oricha Orula -, che la lancia in aria e interpreta il responso in
base a come si posizionano i pezzi.
Il sistema divinatorio tablero de Ifá è basato sullo spargimento di
una polvere magica bianca – ottenuta dalla zanna di elefante -: il
babalawo la sparge su un tavolo particolare dove sono indicati

quattro quadranti abbinati ad altrettante divinità. In funzione di
quanti semi di kola (ikines) o palma rimangono nella sua mano
sinistra, traccia dei segni sul ‘tablero’, ottenendo la stessa
combinazione dell'ekuelé.
In questo modo si interpreta la volontà della divinità. Da tener


presente che con il tablero si possono avere fino a 4096
combinazioni, mentre con il sistema obi solo 5, ecco perché è
necessaria la conoscenza e la saggezza di un babalawo per
interpretare il complicato linguaggio degli Orichas.
Vista la prevalenza degli elementi africani è senza dubbio
interessante elencare gli elementi leggendari dei più importanti
Orichas a partire da quella che nella religione Cattolica potrebbe
essere riconosciuta come “La Trinità”: Olofi- Oloddumare -Olorúm.
Il più importante tra queste divinità è Olofi, l’Essere Supremo,
onnisciente e onnipotente, simbolo della volontà creatrice, «padre
del cielo e della terra, la sostanza primigenia da cui derivano il
mondo immateriale e materiale, gli uomini e gli Orichas. […]
Quando creò l’Universo, Olofi incaricò ogni santo affinché
svolgesse specifiche funzioni, sulla base del potere che avrebbe
conferito loro su uomini, animali, piante, cose e forze naturali».
A lui è associato Oloddumare, che è la sua parte complementare,
«la sua sposa, la sua parte femminile, l’universo con i suoi
elementi, la madre del cielo e della terra. […] Con il suo sposo vive
lontano, sulla cima di un’alta montagna».
E a loro due è associato Olorúm (detto anche Aggayú Sola), la
manifestazione del frutto di Olofi e Oloddumare, che rappresenta il
Sole. «In lui risiede l’energia vitale che alimenta tutti gli esseri
viventi: uomini, animali e piante. Senza di lui la vita creata non
potrebbe svilupparsi e fornire il raccolto di cui ci si nutre; non ci
sarebbero né il giorno né la notte, non potrebbero avere luogo le
stagioni e le manifestazioni atmosferiche».
La mitologia Oricha è molto complicata, per cui questa trilogia non è
sufficiente per la creazione: infatti Obatalá fu incaricato da Olofi di
creare le terre emerse senza toccare mai il cielo.

Esistono delle leggende che derivano dalle narrazioni orali africane
legate ai vari Orichas, che si chiamano pattakies.
Riporto il mito yoruba della creazione:
«Dio onnipotente, Olofi, viveva in uno spazio infinito, fatto solo di
fuoco, fiamme e vapore densissimi. Era così che Olofi voleva
l’universo. Ma venne il giorno in cui si annoiò della solitudine e
decise che era arrivato il momento di abbellire quel paesaggio tanto
cupo e ostile. Liberò la sua potenza così da far scendere acqua a
torrenti. Alcuni elementi solidi si opposero al suo attacco e così si
formarono enormi voragini nella roccia: l’oceano vasto e misterioso
dove risiede Olokun. Nei punti più accessibili prese dimora Yemayá,
vibrante nei suoi colori, l’azzurro e l’argento. Yemayá fu dichiarata
madre universale, madre degli Oricha. Dal suo ventre uscirono la
luna e le stelle, il secondo passo della creazione. Oloddumare,
Obatalá, Olofi e Yemayá decisero che il fuoco, spento in alcune
zone, e ancora forte in altre, venisse completamente assorbito dalle
viscere della terra, attraverso il temuto e venerato Aggayú Sola,
rappresentato dal vulcano e dai misteri delle profondità. Mentre si
spegneva il fuoco, le ceneri si sparsero ovunque, formando la terra,
rappresentata da Orichaoko, che le diede forza al punto da
permettere la nascita degli alberi, dei frutti e delle erbe. Nei boschi
si aggirava Osaín, con la sua saggezza antica sulle facoltà mediche
delle essenze e delle erbe. Nacquero così anche le paludi. Da
quelle acque stagnanti si originarono le epidemie, personificate da
Babalú-Ayé. Yemayá la saggia, la generosa, madre di tutto e di
tutti, decise di dare delle vene alla terra e creò i fiumi di acqua dolce
e potabile, perché Olofi potesse creare gli esseri umani. Fu così
che nacque Ochún. Le due si unirono in un abbraccio di amicizia
che diede al mondo un’inestimabile ricchezza. Olofi decise di
ritirarsi e di vivere lontano, dietro il sole, Olorúm, e lasciò come suo
rappresentante ed esecutore dei suoi ordini Obatalá, il quale creò
gli esseri umani. Ma iniziò un vero disastro. Obatalá, tanto puro,
bianco e pulito cominciò a soffrire per le intemperanze degli uomini.
Stanco di tanta sporcizia, si innalzò per

vivere tra le nubi. Da lì iniziò a osservare il comportamento degli
uomini e si rese conto che qualcosa non andava. Olofi si era
dimenticato di creare la morte».
Esistono tante leggende e tante divinità nel mondo degli Orichas,
ma sarebbe troppo lungo riportarle tutte, vale la pena, comunque,
descrivere quelle divinità con più popolarità a Cuba non solo per
motivi religiosi, ma perché godono di una grande simpatia. Sono
noti come “los niños de la simpatía”: Yemayá , Changó e Ochún .
Yemayá, è una “grande madre”, della vita e di tutti gli Orichas che
ama come figli sia che li abbia generati o meno. Secondo la
tradizione è nata dalla spuma del mare, delle cui acque salate è
regina, insieme a tutte le forme di vita che le popolano o le sfiorano,
come i gabbiani. Custodisce i segreti degli abissi marini ed è
simbolo di femminilità e bellezza. La sua danza sensuale inizia
dolcemente poi esplode in un ritmo incalzante che ricorda il
movimento delle onde. È indomabile e astuta e manifesta la sua
collera soprattutto nella sua veste di mare in tempesta.
Changó, figlio di Yemayá, è il signore del fuoco e del tuono, divinità
potente, guerriero instancabile. Dio della virilità e della mascolinità.
Signore dei tamburi batá, della danza e della musica. Simbolo di
voluttà, ama tutte le donne che ammalia con il suo fallo enorme e
con il succo del fiore flamboyán. La sua danza è violenta e
lussuriosa, tende a mimare l’atto sessuale e l’onanismo,
impugnando un’ascia a doppia faccia. Rappresenta tutte le virtù e
tutte le imperfezioni umane; è lavoratore, coraggioso, buon amico,
indovino e guaritore, ma è anche bugiardo, donnaiolo, rissoso e
giocatore.
Ochún , sorella di Yemayá, con la quale divide il regno delle acque.
Regina dei fiumi, delle acque dolci che portano inevitabilmente al
mare. È bellissima, vanitosa e conturbante dea dell’amore sensuale
e degli umori sessuali, simboleggia erotismo, libidine e trasporto.
Ama molto gli uomini, in particolare quelli sposati. Nella sua danza
voluttuosa, nuda senza veli, cosparsa di miele e cannella, attrae
tutti i suoi amanti, contorcendo la zona pelvica e muovendo le mani
sul suo corpo con pratiche di onanismo.

Un’altra importante triade di Orichas è quella dei ‘guerrieri’ costituita
da Elegguá, Oggún e Ochosi.
Elegguá, ha il volto di un vecchio e il corpo di un bambino. È il
signore dei destini umani, padrone dei crocevia, dei quattro punti
cardinali e di ogni porta di casa. È l’ Oricha più temuto perché
possiede le chiavi del destino. Benevolo e generoso, infantile e
giocoso, ma anche violento e pericoloso se adirato. È attratto dal
ritmo dei tamburi e danza con un piede solo con un fare
giocherellone.
Oggún, è il patrono dei guerrieri, lui stesso è un grande guerriero.
È fratello di Changó con cui è nemico perché gli ha rubato la sua
sposa Oyá. Vive nella selva, dove cammina come un pazzo senza
tregua, perché è condannato da suo padre a non poter riposare né
di giorno né di notte. Ama le due dee delle acque, Yemayá, divinità
del mare, e Ochún , splendida signora delle acque dolci. Si ubriaca
spesso per dimenticare i suoi tormenti.
Ochosi, figlio di Yemayá, è il dio della caccia, dell’arco e della
freccia, ma anche delle carceri. Vive nella selva e conosce piante e
alberi grazie alla sua amicizia con Osaín, signore della selva. La
sua danza è quella di un cacciatore dietro alla sua preda, con arco
e frecce, facendo salti e piroette.
Oltre a queste triadi appena citate, ci sono altri Orichas molto
importanti.
Orula, il grande saggio, attraverso cui possiamo conoscere il
passato, attuare nel presente, e predire il futuro. La sua parola non
cade al pavimento, ossia le sue profezie sono sempre certe.
Possessore dell’oracolo supremo degli yoruba, è anche conosciuto
come Orunmila (“solo il cielo conosce quelli che si salveranno”). È il
depositario dei segreti di Ifá, la regola destinata esclusivamente al
Babalawo. Egli comunica solo attraverso il sacro tablero e l’ekuele.
I credenti e i santeros gli rivolgono preghiere, rispetto e devozione,
ma solo il balalawo può rendergli omaggio. Lo si invoca e si riceve

nella cerimonia di Mano di Orula, nella quale viene a comunicare
all’iniziato il suo cammino sulla terra.
Obatalá, è il più importante tra gli Orichas, Padre benevolo di essi e
dell’Umanità. È il santo vestito di bianco che protegge tutte le menti.
Olofi creò l’universo, ma diede a Obatalá il compito di organizzare il
mondo e di creare l’umanità. La sua sposa è Yemayá. È l’unico
Oricha ad avere sia cammini maschili che femminili. Secondo la
sua manifestazione può essere uomo o donna, vecchio e saggio o
giovane e guerriero. È il dio della saggezza, della purezza, della
verità, della pace e della giustizia. È il dio del pensiero e dei sogni.
Babalú-Ayé, è il Santo a cui si ricorre nei momenti più gravi
dell’esistenza che riguardano la malattia e il dolore. Mette in
guardia da bellezza, ricchezza e salute, che spingono l’uomo verso
false illusioni, distogliendolo da valori più importanti. È Dio guaritore
di numerose malattie veneree, della pelle, della lebbra, del colera,
delle malattie in genere. È uno degli Oricha più invocati dai fedeli
nella santería, ma anche dai cattolici cubani. È la divinità che ha a
che fare con le malattie del corpo, le epidemie, le menomazioni.
Viene raffigurato come un mendicante storpio, coperto di piaghe,
vestito solo di una poverissima veste.
È anche colui che aiuta chi soffre, il Santo a cui tutti chiedono la
grazia della guarigione e l’aiuto negli stati di malessere fisico, di
problemi di salute propria o di persone care. I suoi messaggeri sono
mosche e zanzare, perché portano in giro le malattie. Nel ballo
arriva annunciato sempre da un sonaglio trascinandosi come un
malato, avvolto su se stesso.

Osún, è il messaggero di Olofi e il bastone del saggio Orula.
Annuncia i limiti della vita terrena, ricordando la costante presenza
della morte, Ikú. Rifiuta le cose lussuose, esteriori, false e
superficiali, perché gli interessa solo la sostanza. Con i tre guerrieri
condivide gli importanti momenti dell’iniziazione. Si riceve
anch’esso nella cerimonia di “Mano di Orula” ed è consacrato dal
Babalawo che è l’unico che ha la potestà di officiare questo rito.
Rappresenta lo Spirito ancestrale che si relaziona con l’individuo,
che lo guida e lo avverte dei pericoli, essendo vigilante e guardiano.

Simbolizza inoltre la stabilità dell’essere umano sulla terra, per
nessun motivo deve cadere in quanto se succede è presagio di
qualche situazione negativa.

Osaín , è il signore della selva, conosce ogni segreto che vi è
rinchiuso, i misteri delle piante e degli altri esseri che la popolano,
rappresenta addirittura la selva stessa. Ha potere sulle
manifestazioni metereologiche (pioggia, vento) che regolano la vita
nella selva. Ha una immagine asimmetrica: gli mancano un occhio,
un braccio e una gamba, perduti nella lotta contro il fratello che lo
aveva tradito con la sua donna. Ha anche un orecchio grande che
sente bene e uno piccolo che sente poco. Ha reso partecipe il suo
amico Changó di alcuni segreti delle piante che in cambio gli ha
donato poteri sui sacri tambores.

Oyá, moglie di Oggún e amante di Changó, signora del turbinio
delle tempeste, del ciclone e del cattivo vento che porta scompiglio.
È anche divinità del regno dei morti e delle porte del cimitero, con le
sue lunghe vesti cancella le strade della vita. Violenta e impetuosa,
ama la guerra e accompagna Changó nelle sue campagne, con il
suo esercito di spiriti, combattendo con due spade. Vive alla porta
del cimitero o nei suoi dintorni.

Agayú, è il padre di Changó, padrone delle forze terrene, del
deserto e dei vulcani. Patrono dei camminanti, degli operai, degli
automobilisti ed aviatori, è il barcaiolo che trasporta le divinità da
una sponda all’altra del suo fiume. Santo bellicoso e collerico.

Ibeyes, sono i fratellini, figli di Changó e Ochún, cresciuti da
Yemayá. Sono gemelli siamesi, uniti al livello dell’ombelico. Amano
giocare, ridere e divertirsi tra le piante della selva. Riuscirono a
scacciare il diavolo che tormentava uomini e donne con il suono di
un piccolo tamburo. Sono protettori di tutti i bambini di cui
rappresentano la fortuna, il gioco, l’intelligenza, l’innocenza, la
saggezza.

Inle, è uno dei mariti della bella e vanitosa Ochún, patrono dei
medici, medico egli stesso, signore di pesci e pescatori. È maschio
e femmina allo stesso tempo, la sua è una bellezza quasi
femminile, ma il maschile e il femminile in questa creatura diafana e
perfetta si coniugano raggiungendo una armonia perfetta. Non fuma
e non beve e non ha necessità dei ritmi stimolanti dei tamburi e del
sesso. Danza a zigzag, mettendo così in luce la sua doppia natura.

Olokun, è androgino, un misto tra uomo e donna. Nella
lingua yoruba, Olokun , significa "padrone del mare” e le sue
caratteristiche sono visibili sul fondo dell'oceano, infatti governa
ricchezze materiali, abilità psichiche, sogni, meditazione, salute
mentale e personifica la pazienza, la meditazione, l'osservazione, le
visioni future. Rappresenta il mistero degli oceani, nella sua
immensità e profondità, un’entità talmente estesa e misteriosa che
la mente umana non riesce a concepirla e a farne una
rappresentazione. Proprio per questa immensità e impensabilità, è
l’unico Oricha di cui non è possibile fare una rappresentazione
materiale. Nessun essere umano può essere posseduto da Olokun
perché la sua vastità non potrebbe mai essere racchiusa in un
corpo tanto limitato. È il protettore degli schiavi africani trasferiti
nelle Americhe. È collegato a Yemayá , essendo associato allo
stesso elemento della natura, il mare, l'acqua. Nella sua versione
femminile, Olokun è la moglie di Olorúm e la madre di Obatalá .

Okó, rappresenta l’archetipo/divinità dell’agricoltura. Il rapporto con
la terra e l’alimentazione sono alla base delle priorità quotidiane.
Ha un doppio aspetto, un aspetto sommerso e un aspetto emerso.
L‘aspetto sommerso è quello che lavora con la profondità della
terra, fino alla terra umida. L’aspetto emerso invece è quello che
lavora con il cielo. Figlio di Yemayá e Obatalá , due Orichas così
assoluti, ha la missione da parte di Oloddumare, di trovare il
segreto del seme e della semente.

Ikú, rappresenta la morte, di cui si parla poco e con una dose di
mistero. Non c'è religione in cui il morto non abbia partorito il santo.

Perché ci siano santi, devono esserci esseri umani vivi che
muoiono. Dopo la morte, alcuni di loro acquistano una carica
emotiva e diventano santi. Inizialmente l' Oricha , in quanto energia
della natura, non ha un'espressione antropomorfica, la acquista non
appena appare l'uomo. Appena il primo uomo muore, diventa
Oricha. Succede che in questo tema del santo morto (la gallina o
l'uovo), a volte si voglia tracciare una linea rigida e univoca che in
realtà non esiste.

COLLEGAMENTI:
Olofi Oloddumare Olorúm Obatalá Yemayá Changó Ochún
Elegguá Oggún Ochosi Oyá Osaín Orula Babalú-Ayé Osún Ikú
Agayú
Ibeyes Inle Olokun Okó

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