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La Russa a Fini: "Vaffa" e le monetine del PD. Circo Italia

Il "presidio democratico" incoraggiato dal Pd, cui si sono uniti quelli dell'Idv e del partito del presidente della Camera, si trasforma in un'aggressione proprio all'istituzione presieduta da Fini e ai suoi membri, in quel "popolo delle monetine" che quasi vent'anni fa rappresentò la pagina più brutta, incivile e insieme inquietante - perché non del tutto spontanea - del pur giustificato disgusto popolare per la corruzione imperante nella Prima Repubblica. E sono gli stessi: ex Pci, ma anche forcaioli di destra, dell'ex An, oggi divisi tra Idv e futuristi.

Nei Paesi seri il ministro della Difesa quasi non si sente e non si vede. Già le escandescenze televisive di La Russa risultano poco compatibili con il suo incarico, figuriamoci il "vaffa" di ieri all'indirizzo del presidente della Camera. Anche se interpreta l'umore di molti, non è certo un comportamento da ministro, né da coordinatore del primo partito italiano. Così come Fini che tenta di impedire a La Russa di denunciare in aula ciò che sta avvenendo a un metro dall'ingresso di Montecitorio (ancora una volta la rete di protezione di uno dei rami del Parlamento ha fatto cilecca), e che dà del «cocainomane» al ministro della Difesa, dimostra che non può essere presidente della Camera uno che nei confronti di Berlusconi e del Pdl ha gli stessi occhi iniettati di sangue dei manifestanti là fuori.

Che dire poi del Pd, che agita la piazza senza neanche rendersi conto di esserne in realtà prigioniero? Guardare sotto la voce "nullità". Ciò che è in gioco, oggetto dello scontro, come sintetizza efficacemente un titolo su Il Foglio di questa mattina, è il «diritto dei giudici ad abbattere Berlusconi». Un diritto che va negato con una riforma della giustizia rigorosa e senza compromessi che riporti la magistratura sotto controllo. Sì, sotto controllo, come ogni altro potere e ordine dello Stato. Sempre Il Foglio fa notare come la Repubblica inganni i suoi lettori. Nei suoi retroscena attribuisce al presidente Napolitano pensieri e interventi che sembrano delegittimare l'azione del governo e della maggioranza, ma si tratta spesso di pure invenzioni. Peccato che il quotidiano non abbia neanche l'onestà professionale di pubblicare le forti smentite del Quirinale.

Tutto questo mentre la crisi libica, con tutto ciò che comporta per il nostro Paese - interessi, ruolo in Europa e nel mondo, emergenza immigrazione - dovrebbe richiamare la nostra classe politica a ben altre priorità e sfide che non ad una rissa continua e sterile.



Già, la Libia. La defezione del ministro degli Esteri di Gheddafi, ed ex capo dell'intelligence del regime, Koussa è un'ottima notizia per Obama, Sarkozy e Cameron, un risultato delle loro pressioni politiche e militari, ma un po' meno per Roma. L'uomo che avrebbe dovuto tessere la trama negoziale per l'esilio del raìs pensa alla propria pelle e fugge. D'altra parte, tuttavia, l'ipotesi di armare i ribelli, che si sta facendo sempre più strada a Washington, a Parigi, così come a Londra, dimostra l'insufficienza della "strategia" adottata finora ed è la conferma che al di là delle ipocrisie l'obiettivo discriminante per il successo o meno della missione non è solo la protezione dei civili, ma la cacciata di Gheddafi. Se oggi di fatto si va verso un'escalation, è perché sì è agito con colpevole ritardo, in ossequio al ruolo dell'Onu (per ottenere una risoluzione ambigua esattamente come quella che portò alla guerra in Iraq) e al multilateralismo (se così si può chiamare una coalizione di 15 Paesi, mentre sarebbe "unilateralismo" quella di 40 per l'Iraq, ironizza Rumsfeld).

Il ritardo, infatti, ha reso insufficiente la formula della no-fly zone e dei raid aerei. E' probabile che le armi stiano già affluendo ai ribelli da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, magari via Egitto, sicuramente non dalla Nato, e non si possono escludere anche operazioni di appoggio (Obama avrebbe autorizzato la Cia a condurre operazioni segrete in Libia). Come al solito la nostra diplomazia non capisce al volo e si attarda in uno controcanto sterile («non è la soluzione migliore», o «è l'estrema ratio»), dal momento che sarà costretta ad accodarsi alle decisioni altrui tra pochi giorni.

Ma le difficoltà della missione voluta da Usa, Francia e Gran Bretagna, e l'escalation delle armi ai ribelli che sono costretti a valutare, non dovrebbero essere motivi di rivalsa a Roma. Confermano infatti che lo stallo militare sul terreno, con la Tripolitania saldamente nelle mani di Gheddafi e la Cirenaica ai ribelli, è una vittoria per il Colonnello, che può sperare così di sabotare i cingoli della missione internazionale e resistere indefinitamente, e una sciagura innanzitutto per l'Italia. Alla Farnesina continuano a non capire che uno stallo esclude che Gheddafi si rassegni a trattare il suo esilio, anzi sarà lui a chiedere a Obama, Sarkozy e a Berlusconi di andarsene. Non so se armare i ribelli sia l'opzione migliore (è ancora fresco il ricordo dei famosi stinger che gli Usa hanno dovuto ricomprare uno ad uno dai mujaheddin afghani), ma di certo se vuole avere un ruolo con questa carta velleitaria dell'esilio l'Italia deve augurarsi che l'intervento armato riesca a mettere Gheddafi con le spalle al muro, quindi non ha senso non bombardare oppure ostacolare soluzioni per aumentare l'efficacia dell'intervento alleato.

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