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La Palestina e la svastica

Propaganda nazista per il mondo arabo è il titolo di un libro di Jeffrey Herf, da poco tradotto in italiano, cui il Corriere del 13 ottobre ha dedicato un lungo articolo a firma di Luciano Canfora.

Vi si racconta di nuovo (la vicenda non è certo una novità) la storia della spiccata simpatia del Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini, per la dittatura nazista al potere negli anni ’30 e ’40.

Storicamente può essere comprensibile l’avvicinamento dell’intellighenzia mediorientale al nazismo (e prima ancora al fascismo italiano) in virtù di una profonda avversione verso il mandato della Società delle nazioni sui paesi arabi dopo lo sfaldamento dell’Impero Ottomano (alla Gran Bretagna toccò il territorio che oggi corrisponde a Israele, West Bank e Giordania più una sorta di protettorato sull’Iraq; la Francia si prese Siria e il Libano).

Meno comprensibile, se non per ipotizzabili affinità ideologiche, le simpatie filonaziste che alcuni leader arabi confermarono anche dopo la guerra, come lo stesso al Husseini, rimasto a lungo il più alto esponente della comunità palestinese, o l’ex presidente egiziano Anwar Sadat, che "nella sua autobiografia del 1978 scrisse del Führer con entusiasmo".

Quello che l’articolo non cita (il libro non so, non l’ho letto) è l’oscura e poco conosciuta vicenda del progettato avvelenamento dell’acquedotto di Tel Aviv, che i dirigenti palestinesi svilupparono nel 1936 in collaborazione con i servizi segreti di Mussolini. Il piano prevedeva che alcuni elementi libici al soldo di Roma introducessero in Palestina sostanze letali in grado di contaminare il sistema idrico di quella che allora era l’unica città totalmente ebraica nel paese.

L’attuazione del disegno terroristico fu bloccata per le difficoltà tecniche dell’esecuzione o forse per non irritare l’Inghilterra in un momento in cui Mussolini cercava ancora un accordo, ma ciò non toglie che la volontà palestinese fosse chiaramente quella di provocare lucidamente una strage di civili dalle dimensioni catastrofiche, attuata con mezzi chimici.

Cioè esattamente quello che i nazisti avrebbero fatto di lì a poco nei loro campi di sterminio usando il Zyklon-B. La vicenda, cui uno storico italiano, Stefano Fabei, ha dedicato un libro qualche anno fa (Mussolini e la resistenza palestinese), è nota e confermata dai documenti conservati alla Farnesina e nell’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, a Roma.

L’attività filonazista del Gran Muftì e la gravità dell’attentato terroristico progettato, oltre alla pulizia etnica che la comunità ebraica di Hebron (ebrei indigeni, non nuovi immigrati sionisti) subì con molte decine di morti nel 1929, chiariscono un fatto che solitamente si tende a nascondere: da parte delle élite palestinesi ci fu un deliberato tentativo di eliminare la presenza ebraica in Palestina con atti terroristici, ben prima che iniziassero gli attentati dell’Irgun o che la guerra del ’47-’48 provocasse la diaspora di alcune centinaia di migliaia di profughi palestinesi.

Parliamo evidentemente di "terrorismo" in quanto rivolto indiscriminatamente verso civili e combattenti, ma anche di “resistenza”, cioè di opposizione con tutti i mezzi all’immigrazione di un gruppo etnico di provenienza europea (anche se Gerusalemme era una città a maggioranza ebraica già alla metà dell’Ottocento) che aveva elaborato un proprio progetto politico finalizzato alla costruzione di uno Stato.

Il nazionalismo palestinese non era perciò ingiustificato, ma, contemporaneamente, non è lecito dimenticare che quello ebraico era anche un popolo che in Europa stava attraversando una delle più drammatiche vicende della storia umana, di cui il ceto politico arabo era certamente a conoscenza. In altri termini la resistenza palestinese fu attuata di concerto con quelle stesse forze che stavano avviando a morte alcuni milioni di ebrei, la cui unica via di salvezza era, grazie all’attività illegale delle organizzazioni sioniste, proprio quella che portava in Palestina.

Continuare a sostenere che i palestinesi non ebbero alcun ruolo né alcuna responsabilità nello sterminio degli ebrei europei appare quindi come un'affermazione di semplice propaganda politica più che di verità storica, benché le motivazioni fossero ben diverse, è chiaro, da quelle dei gerarchi nazisti.

E’ più esatto dire allora che i palestinesi furono “vittime delle vittime” come affermò Edward Said, uno dei pochi intellettuali della diaspora palestinese, non del colonialismo sionista di stampo europeo, come vuole una certa vulgata terzomondista che alla fine si deve appoggiare necessariamente, e più o meno apertamente, a tesi negazioniste.

Così come, d'altra parte, è poco condivisibile anche l'ottica del sionismo radicale che afferma l'origine di Israele esclusivamente nel proprio progetto politico, sostenuto dai deliri biblici di appartenenza, più che nel "caso fortuito" della fuga ebraica dall' Europa nazistificata e postbellica.

Questo significa che, oggi, i diritti palestinesi, come quello di uno Stato autonomo, libero e indipendente, non possono essere negati, ma anche che la situazione attuale è figlia delle scelte di ieri e quelle di ieri lo erano di quelle del giorno prima.

Ripristinando la verità storica, sempre molto più complessa delle semplificazioni polemiche da politicanti del baretto sotto casa, forse si fa un favore alla causa della pacificazione, togliendo argomenti pretestuosi ai falchi degli schieramenti in causa. O si spezza la catena costruita sulle menzogne o si è responsabili dei disastri prossimi venturi.

 

 

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