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La Grande Destrutturazione

Da una segnalazione di Tyler Cowenquesto rapporto dell’International Labour Organization (ILO), l’agenzia Onu che si occupa di diritti del lavoro, mostra quello che accade al sistema delle relazioni industriali in un paese in profonda crisi economica, caratterizzato da un tessuto prevalente di piccole e medie imprese, che cerca di dare una maggiore flessibilità al proprio mercato del lavoro. Utile a noi italiani per trarre inferenze domestiche.

Il caso è quello del Portogallo e del suo sistema di contrattazione collettiva. Occorre premettere che il Portogallo presenta un tasso di sindacalizzazione tradizionalmente molto basso: nel 2010, meno del 20% del totale dei lavoratori avevano tessera sindacale. La legge portoghese prevedeva di estendere la copertura di accordi di contrattazione collettiva anche a lavoratori non appartenenti ad organizzazioni sindacali firmatarie dei medesimi, portando quindi il totale a circa il 70-80% degli occupati. Questa è una evidente similitudine con la situazione italiana, che deriva dal fatto che la struttura produttiva è centrata su piccole e medie imprese.

Che è accaduto in Portogallo, a seguito della crisi? Che nel 2011 è stata realizzata una riforma che mirava a spostare la contrattazione collettiva dal livello settoriale a quello della singola impresa, per ottenere una migliore aderenza alle condizioni effettive su base aziendale e territoriale, per promuovere e rafforzare la competitività d’impresa e quindi del sistema economico. Le norme approvate nel 2011 e 2012 hanno di fatto impedito l’estensione ad aziende non sindacalizzate degli accordi collettivi settoriali. Il risultato, data la struttura produttiva portoghese, non è stato il parallelo aumento di contratti di flessibilità e produttività aziendale, ma l’impennata di lavoratori ricaduti nel regime del salario minimo. Il numero dei lavoratori coperti da contrattazione collettiva è crollato dell’80%.

La reazione, quindi, e non è chiaro se si tratti effettivamente di unintended consequence, è una forte pressione ribassista sulle retribuzioni, per avviare quella svalutazione interna vista come necessaria per recuperare competitività in regime di valuta “data” ed “esterna” al paese, quale l’euro. Il problema è che questa deflazione salariale causa, sull’interno, una più generale deflazione che, in presenza di alti rapporti di indebitamento, pubblico e privato, aumenta la possibilità di esiti di default, perché è del tutto evidente (non a tutti, a dire il vero, ma non sottilizziamo) che, in transizione, è piuttosto inverosimile pensare che l’intera struttura produttiva di un paese si converta all’export. Non è che sia inverosimile: è da ubriachi il solo pensarlo, ma restiamo professionali ed asettici.

Come scriviamo da tempi non sospetti né scontati, anche per il nostro paese ed il suo tessuto produttivo esiste una elevata probabilità di giungere ad una riduzione del costo del lavoro non già attraverso un intervento governato tramite la riduzione del cuneo fiscale quanto per via traumatica, cioè con dissoluzione della contrattazione collettiva su base settoriale-nazionale e la sua mancata sostituzione con un sistema di contrattazione aziendale, vista la tipologia dimensionale di imprese prevalente in Italia. In soldoni, riequilibrio tramite riduzione del netto in busta, così magari è più chiaro.

L’esito ulteriore ed intuitivo è dato crescenti rischi di sostenibilità dell’indebitamento, cioè deflazione da debito. Con un Pil nominale che cresce meno del costo medio del debito, l’esito è un crescente rischio di default, che nel settore privato accadrà e sta accadendo in modo ormai conclamato. Riguardo il debito pubblico, per contrastare tale rischio, si andrà a crescenti forme di imposizione patrimoniale, cioè a quella che chiamiamo la Grande Compensazione tra debito pubblico e ricchezza privata. Al momento gli scenari sono e restano questi.

 

Foto: Philippe Moore47/Flickr

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