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La "Cosa" di Heidegger, I 100 talleri di Kant e la vita ordinaria

 

“…si racconta di Talete, il quale, mentre osservava le stelle e guarda­va in alto, cadde in un pozzo: una serva tracia, intelli­gente e graziosa, si prese gioco di lui, perché si affan­nava nel conoscere le cose celesti, ma si lasciava sfug­gire quelle che gli stavano di fronte, tra i piedi. Que­sta stessa battuta va bene per tutti coloro che tra­scorrono la vita immersi nella filosofia” (0). Così citato anche da Heidegger. 

 

Spostando, ripulendo, rimettendo a posto libri, pentole, filtrando il non più da buttar via, mi son venuti fra le mani pezzi di passato, rimessi in vita da pupazzi senza un braccio, brocche senza un manico, vecchie fotografie con noi persone in luoghi od atteggiamenti che mai più ricordavo, merletti ceramiche vetri di luoghi di cui eravamo stati ospiti. E tutti congiuravano ad innalzare un velo di malinconia che neppure la nebbia più fitta avrebbe potuto dissolvere. Oramai la fatica dell’imbiancatura, antecedenti e susseguenti, era finita, il caos era stato domato. Ma aveva accentuato lo stato d’animo dismesso e la tristezza di non poter condividere la soddisfazione dell’impresa, la visone ed il godimento della sistemazione dei luoghi e delle cose. Magro risultato, pur se necessario.

Anche il senso d’orgoglio, per così dire, d’aver portato a termine più che bene un’operazione che non rientrava nell’ordine degli interessi ed attitudini ordinarie. Novello Lazzaro mi è venuto fra le mani, fra i tanti, un libro che neanche più ricordavo. ‘La questione della COSA’ di Martin Heidegger. Diciamo subito che la Cosa in effetti non è la materia inanimata o la materia pensante, che hanno come fondamento solo ‘estensione’ e ‘profondità’ ma l’ESSERE di cui esse sono manifestazioni.

Allora tagliando corto e vestendo il libro di panni da vita ordinaria di tutti i giorni, diciamo che, in ultima analisi, si tratta della ‘Cosa in sé’ ossia di quello che c’è o si suppone o si vorrebbe ci fosse ‘dopo’ la vita, non tanto per noi quanto per i nostri affetti più cari che non ci sono più. Premettiamo che alla domanda non c’è risposta tranne che per chi ‘Crede’ per Fede e non per ragionamento. Siamo limitati alla sfera del sensoriale empirico e non c’è modo di fare un salto ricognitivo oltre le esperienze terrestri. Siamo però esseri umani dotati non solo di ragione ma anche - e soprattutto, nel bene e nel male - di sentimenti e la domanda continuiamo a porcela dalla notte dei tempi. Se soffriamo poi per una ‘scomparsa’ allora siamo portati a porre di nuovo sotto esame le convinzioni acquisite culturalmente, non solo, ma anche quelle su pure basi istintive, non per offrire una facile via fuga alla sofferenza in rassicuranti paradisiaci cieli, ma per fare all'indietro il nostro percorso di vita, quasi per far indietreggiare il tempo.

E il bisogno ‘sentimentale’ e maggiormente da quello che sosteneva, giustamente, Sartre: dal momento che diamo per abitudine acquista un sentimento od una convinzione, reifichiamo gli stessi facendoli diventare oggetti senz’anima. Un amore, un orientamento, un’ideologia, un’interpretazione dovrebbe essere ripercorsa all’indietro, riesaminata, rivista o convalidata a brevi raffiche di cadenze. Magari quell’amore di una volta non è più tale, quella convinzione si è mutata nel suo opposto. E se, ad es., il sentimento d’amore resiste, è come se fosse nuovo, come la prima volta. Ogni mattina, svegliandoci, dovremmo chiedercelo: Le voglio sempre bene con immutato amore?

Non è forse vero che la lettura oggi dei ‘Promessi sposi’ ha un’angolazione diversa da quando avevamo 18 anni? E che il Leopardi o il Dante che allora non potevamo sopportare sono ora nel nostro Olimpo ? Ecco, ma ritornando alla ‘Cosa’ del libro, esso è stato, come quello famoso, veramente galeotto. Si è palesato per spronare a spunti di riflessioni, suggestioni e rievocazioni, dimora di quelle cose che -come scrive Pascal Mercier (Treno di notte per Lisbona) "Lasciamo qualcosa di noi quando abbandoniamo un luogo, rimaniamo lì pur andandocene via. E ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo se facciamo ritorno lì.”

Il libro che ho trovato non è il libro delle risposte, tutt’altro, è però il libro galeotto che si insinua nell’anima e la induce al ‘viaggio’, a ripercorrere i sentieri già fatti (o interrotti, come direbbe Heidegger). Non si tratta di una disamina filosofica. Quella lasciamola agli addetti ai lavori anche se, viene da considerare, che quasi sempre le disamine ed i concetti filosofici abbandonano la vita reale da cui nascono e si involvono in cieli rarefatti di carne e di spirito in cui si articolano, more geometrico, incrociando le spade in un tessuto di interessi di prestigi accademici o di lustro personale. Per intanto Heidegger si dà a definire quale debba intendersi la collocazione e le proprietà della ‘cosa’ mondana ossia dell’essere dell’Ente (umano, qui seguo sempre una mia messa a fuoco personale, secondo il criterio che più mi interessa e che mi guida in questo scritto). Le condizioni necessarie sono una collocazione della sua estensione (forma), che necessariamente presuppone un luogo, un tempo ed una relazione con le estensioni delle altre Cose. Allora le determinazioni generali che ineriscono, determinano e vengono predicate delle cose sono pertanto estensione, luogo, tempo e relazione. Ma queste determinazioni (categorie) dell’Essere sono in effetti nostri concetti con cui vediamo e ci vediamo nel mondo esterno. Fuori di noi ci sono veramente? In particolare il Tempo e lo Spazio, in cui ‘esiste’ e si ‘muove’ la Cosa, l’Essere, sono reali?

Per rispondere dobbiamo emettere un giudizio ed i giudizi si fondano su concetti coi quali si argomenta consequenzialmente qualcosa in merito alle affermazioni e convinzioni. Ma le proposizioni con cui si formano i concetti devono essere correlate a verità. E sappiamo benissimo (specialmente dall’epoca moderna) che la verità non è mai assoluta, una ed immutabile al di là del tempo. Essa è invece figlia del suo tempo, proiettata in un orizzonte che si dischiude sempre in avanti e diverso al progredire della conoscenza. E conoscere vuol dire appunto sapere partendo dalle cause prime, scire per causas (scienza). E anche la scienza è sottoposta alle mutazioni delle epoche, conseguenti all’affacciarsi di nuove prospettive. Dalla concezione qualitativa dell’antichità si passa poi a quella quantitativa del primo Rinascimento (con i prodromi già nell’evo dell’Umanesimo). Tralasciando, orbene, i pezzi da 90 dell’antichità e del Rinascimento, sentiamo cosa ci dice più propriamente H.

"La grandezza e la superiorità della scienza naturale del XVI e XVII secolo sta in ciò che quegli scienziati erano tutti filosofi. Essi erano consapevoli che non ci sono fatti puri e semplici, ma che un fatto è solo quello solo alla luce del concetto che lo fonda…” (1)

Ciò che qui mi premeva, tuttavia, era indubitabilmente la questione della ‘cosa’ uomo in relazione alla ‘cosa in sé’. Seguo ancora H. Partito dall’analisi dell’esistenza della cosa oggetto (fenomenologia) H. si dà poi ad analizzare l’esistenza dell’uomo (esistenzialismo, assieme a Jasper, H. ne è stato uno dei primi assertori).

“La domanda include in sè quest’altra: che è lo spazio tempo…in cui si, come sembra, determina la caratteristica fondamentale della cosa, quella di essere sempre un ?” (1)

“Che spazio e tempo siano un che d’ rispetto alle cose?” (1)

“Più volte si è visto che la verità della cosa è connessa con lo spazio e col tempo” (1)

“Kant distingue la cosa come appare dalla cosa in sè. Ma la cosa in sè…non è che una mera X per noi…conoscibile come cosa è soltanto l’oggetto fisico che appare.” (1)

“Secondo Kant…la possibilità che appartiene solo al pensiero non decide nulla riguardo alla possibilità d’esistenza di un oggetto. Impossibile è per noi soltanto l’oggetto che non può mostrarsi nello spazio e nel tempo” (1).

“L’interrogazione kantiana intorno alla cosa rivela una dimensione che è tra la cosa e l’uomo, e che si protende oltre le cose e dietro l’uomo.” (1)

“La doman­da: - che è una cosa? - è la domanda: - chi è l’uomo?…Si tratta di decidere se vogliamo sapere ciò che, secondo il comune modo di dire, non serve a niente. Se, rinunziando a questo sapere, non poniamo il problema, tutto resta così com'è. Supereremo i nostri esami anche senza questo problema, anzi forse meglio. Se d'altra parte lo poniamo, non diventeremo da un giorno all'altro mi­gliori botanici, migliori zoologi, migliori storici, giuristi, medici. For­se però migliori, o in ogni caso, per parlare più cautamente, diversi: diversi come insegnanti, come medici e giudici, sebbene anche allo­ra, nella nostra professione, niente potremo fare con questa domanda” (1).

Le domande intorno all’essere dell’uomo, pongono però un’altra questione più vera ed incalzante: la vita termina con la morte e con essa quel soffio vitale, quel vento che sentiamo ma che non vediamo? Quell’ombra inafferrabile che in vita segue il nostro corpo?

Nell’antichità Platone è stato il primo a dire no, fondando la sua asserzione su “un’autentica fondazione speculativa e un inveramento sul piano della ragione…Il Fedone crea, o comunque, certamente fonda filosoficamente il concetto di ‘anima’ ed opera un rovesciamento di valori, che fu rivoluzionario per l’antichità, ma che resta strutturalmente tale, quindi, anche oggi…La morte è certamente qualcosa di assai più tragico di quello che pensasse Platone: però resta il fatto, non dimentichiamolo, che egli ha capito e detto, come nessuna altro nell’antichità, che la morte non miete e non mieterà mai la sua vittoria.” (3)

Anche la dottrina cristiana è in gran parte mutuata e debitrice all’afflato platonico.Heidegger osserva: “Il predominio della religione cristiana ha comportato un particolare ordinamento gerarchico dell’ente…ogni ente non -divino è creato. Nell’ambito del creato vi è però un ente particolare: l’uomo. Particolare perché è in questione la salvezza eterna della sua anima.” (1)

Ma da Cartesio in poi è il pensiero e non l’essere che dà il fondamento all’Ente, e anche quel mondo sovrasensibile cha dava la garanzia del ‘dopo la vita’ è tramontato. Il vecchio concetto medievale dell’adeguazione (corrispondenza) dell’intelletto alla realtà (’Adaequatio rei et intellectus’) non vede che in concreto non c’è corrispondenza effettiva fra l’uomo (pensiero) e la realtà (l’ESSERE). Due diverse nature. È pur vero, però, che l’Ente, cioè l’uomo soggiorna nella vicinanza dell’Essere, anzi che è una sua manifestazione, un diaframma in cui appare e si nasconde uno spiraglio dell’Essere. Ma il suo linguaggio non conduce alla verità oltre la soggettività («il linguaggio non è in grado di dire il mondo dunque il fondamento») (2)

E così la condizione dell’uomo in questo mondo, gettatoVI senza essere stato consultato non è la più rosea, come già da Heidegger analizzato nel suo “Essere e tempo”. L’essere nel mondo dell’uomo, gettato lì (Da-sein) si concretizza come una trascendenza (oltrepassamento, del proprio esser_ci), una relazione verso gli altri uomini e le cose. E fin dall’inizio l’uomo deve necessariamente inserirsi nei rapporti con gli altri e con le cose, altrimenti si troverebbe nella solitudine assoluta (solipsismo). Questo rapporto comporta che egli deve trattare e ‘curare’ questa relazione. Avere cura degli oggetti da usare come strumenti e della relazione umana, che è apertura, dialogo e comprensione con il proprio consimile. Ma l’esigenza umana è anche tensione verso la trascendenza del presente, l’apertura al domani, il progetto per oltrepassare le condizioni presenti… che derivano però sempre dal ‘passato’ e che pertanto costituiscono il limite e l’inautenticità della vita quotidiana. Allora, e questo è importante, l’uomo cade nell’abisso senza fondo della ‘deiezione’, cioè la consapevolezza che la propria vita non è che un fatto, niente di spirituale, di scientifico, nessun valore; tutto nel quotidiano, nell’inautentico. Allora l’uomo progetto, l’uomo dalle varie possibilità, in effetti non ne ha nessuna, qualunque possibilità di progetto scelga, è un nulla, meno che niente. Così considerata, l’uomo vive un’esistenza del tutto anonima, che non conduce da nessuna parte, che blocca qualsiasi progetto e che lo lascia sospeso, fluttuante nel vuoto.. Conduce solo alla morte. Ed allora il vivere più proprio dell’uomo è vivere per la morte. Tutto converge e sfocia allora nell’angoscia, che non è solo ed è ben più della paura della morte, ma consapevolezza di un’esistenza vuota e nel vuoto, e che ci prospetta solo il Nulla. “L’angoscia è la situazione emotiva capace di mantenere aperta la continua e radicale minaccia che sale dall’essere più proprio e isolato dell’uomo”, (Essere e Tempo, trad. Chiodi, 1970-1976, https://giuseppecapograssi.files.wo... ).

Anche nei più tardi approfondimenti, allorché Egli prenderà a considerare il linguaggio quale unico disvelatore, in H. resta pur sempre un pessimismo metafisico, tagliato fuori, ovvio, dalla cosa in sé, dal noumeno kantiano. (Noumeno è un concetto del filosofo Kant che stà ad indicare tutto ciò che cade al di là del mondo fenomenico [cioè al di là del mondo reale che vediamo e viviamo noi] e che é quindi fuori della nostra portata conoscitiva. E’ da ritenere quindi falso qualsiasi tentativo mistico di superare questi limiti del conoscere) Ricordiamo che Kant è stato ed è, per fare una similitudine, come una grande stazione di smistamento ferroviario. Da lui in poi è cambiato tutto il sistema di approccio alla filosofia e alla metafisica. Qualsiasi sistema filosofico deve fare i conti con lui.

Anche tutte le prove dell’esistenza di Dio come garante della vita eterna vengono meno. Egli affermò che è possibile pensare un essere perfettissimo ma che il suo predicato di perfezione non gli dà in nessun modo anche l’esistenza, così come pensare una somma di 100 talleri (oggi 1 milione di euro?) non ce la fa però trovare in tasca.

“La filosofia di Kant dà per la prima volta al pensiero moderno, anzi all’età moderna nella totalità del suo esserci , una chiara trasparente fondazione…Perciò Kant emerge su tutto quanto l’ha preceduto e seguito, perché anche coloro i quali l’hanno respinto o oltrepassato, dipendono ancora completamente da lui.” (1).

Nell’ultimo periodo abbandono dell’esistenzialismo e dei suoi esiti negativi per una spiegazione dell’esserci, e si convince che l’unica possibilità che dà l’Essere di svelarsi è attraverso il linguaggio, la parola e la poesia. Non altro fondamento.

"L'ostacolo che incontrò Heidegger a chiudere Essere e tempo, secondo le sue ambizioni iniziali, fu di natura linguistica. Avrebbe voluto affrontare il tema del senso dell'essere in generale ma, non trovava le parole per dirlo. La natura della difficoltà venne evidenziata più tardi nella Lettera sull'umanismo del 1947. Qui cercò di spiegare che l'analitica dell'esistenza aveva il il senso di "un pensiero che sta abbandonando la soggettività" per aprirsi "alla luce dell'essere".

La III sezione non venne composta perché il suo pensiero si trovò impossibilitato a formulare la "svolta". Il linguaggio di cui disponeva allora Heidegger, quello della tradizionale metafisica della "presenza", era inutilizzabile. «Il linguaggio - spiegherà Heidegger nella Lettera sull'umanismo - non è una manifestazione di un organismo o espressione di un essere vivente. Perciò non è possibile intenderlo, nella sua essenza,in base al carattere di segno e forse neppure in base a quello di significato. Il linguaggio è evento illuminante e proteggente dell'essere.», (Daniele Lo Giudice, http://digilander.libero.it/moses/h... ).

E allora “In questa forma la filosofia, secondo Heidegger, viene a coincidere con la poesia giacché l’una e l’altra non fanno che svelare, attraverso le parole, il significato dell’essere. In questo svelamento tuttavia l’opera dell’uomo non c’entra. Non è l’uomo che parla ma il linguaggio stesso e, nel linguaggio, l’essere. L’uomo può parlare solo in quanto ascolta: la sua essenza consiste appunto nell’ascoltare il linguaggio dell’essere, nell’ubbidire all’essere e nell’affidarsi ad esso” (4)

“Il pensatore dice l’essere…il poeta nomina il sacro” e in quest’epoca in cui gli dei “hanno abbandonato la terra” un pensatore (Heidegger) non può essere altro che “un viandante diretto nelle vicinanze dell’essere” a cui però mai potrà arrivare. Quindi egli non avrà teorie e filosofie da comunicare ma potrà soltanto indicare itinerari vero una nuova era. Pertanto “cammini possibili”, secondo questa frase che appuntò poi al corpus delle sue opere. Il Linguaggio quale vero Essere ? Sul testo “In cammino verso il linguaggio”, mi sembra abbastanza buono: http://www.parodos.it/books/pensier...

Come dicevo, però, in effetti non c’entra niente Heidegger e il libro sulla ‘Cosa’. Parafrasando potrei dire che hanno dato la suggestione di un viaggio, arrivando poi a dei ’Sentieri interrotti’ per quanto riguarda la ‘domanda’. Tuttavia come l’araba fenice che risorge sempre dalle proprie ceneri, la domanda si rinnovererà sempre.

E “in quel punto di intersezione fra tempo ed eternità” (T. S. Eliot, La terra desolata), nei flussi di triste speranze e trepide aspettative, in cui la scienza da tacita e comprensiva amica, si trae in disparte, mi piace chiudere con le ultime parole di vita del sacerdote Florenskij, matematico e filosofo russo: “Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo… Perciò, se anche ci dispiace per il passato, abbiamo però la viva sensazione della sua eternità. Al passato non abbiamo detto addio per sempre, ma solo per breve tempo. Mi sembra che tutti gli uomini, di qualunque convinzione siano, nel profondo dell'anima abbiano in realtà questa stessa impressione. Senza questo, la vita diventerebbe insensata e vuota. Il passato non è passato, ma custodito, e rimane per sempre; siamo noi che lo dimentichiamo e ci allontaniamo da esso, ma poi, a seconda delle circostanze, esso si rivela di nuovo come eterno presente.

Come scrisse un poeta del XVII secolo [Angelus Silesius]: “La rosa che il tuo occhio esteriore qui vede, dall’eternità è fiorita ugualmente in Dio.”, (Florenskij, sacerdote, matematico e filosofo russo, fucilato a Leningrado nel 1937, a qualche mese di distanza da questo suo scritto, redatto in prigione.

Estratto da ‘Non dimenticatemi’, Lettere alla moglie e ai figli, Mondadori, 2000).

Nota di chiusura: ribadisco che questo mio scritto non è, e non può essere una disamina di ordine filosofico ortodosso nè di competenze da studioso. È un vestito confezionato ai sentimenti e circostanze della mia vita personale.

paolo patrone

Riferimento alle citazioni nel testo: (0) Platone ’Teeteto’ trad. L Antonelli, Intro S. Natoli, Feltrinelli, 2000;

(1) Martin Heidegger ‘La questione della cosa’, Guida Editori Napoli 1989 e Mimesis 2011;

(2) qua e là, fra cui: la sola lettura, senza citazioni dirette, di: Martin Heidegger ’Sull’essenza della verità’, a cura di Umberto Galimberti, Editrice La Scuola,1973;

(3) G. Reale, 'Fedone’, intro, Editrice La Scuola,1970;

(4) N. Abbagnano, ’Storia della filosofia III’, Utet 1974. 

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