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L’urlo dello Zenit terrorizza l’Occidente

Di nuovo dalla Russia, anche se per la precisione prima era Unione Sovietica e adesso sarebbe Ucraina, ancora dalla Russia (per semplicità d’intendimenti quindi), dopo la Dinamo Kiev anni ‘80 di Lobanovski, arriva a terrorizzare l’Occidente l’urlo di una squadra imprevedibile per cui possiamo parlare di futuro: lo Zenit di San Pietroburgo.

Della concezione lobanovskiana, questa squadra ha davvero tanto. È anarchica ma allo stesso tempo ordinata, baldanzosa e allo stesso tempo accorta, irresistibile negli spazi ampi e granitica in quelli stretti, ha fantasia e rigore, corsa e lucidità.

Quello che impressiona di più è il coraggio che tutti i calciatori disperdono a manciate sul campo. Il terzino non ha paura di scorazzare per dieci volte consecutive in avanti lasciando scoperta la fascia, il mediano non disperde energie e palloni con lanci lunghi inutili e prevedibili, cerca di sviluppare un gioco magari semplice ma che fa della voglia individuale il succo, il centravanti non ha nessun timore di buttarsi nelle mischie più fragorose anche grazie alla stazza.

E pensare che tutto questo viene fuori dallo shaker di un olandese nano che prima di adesso era stato preso per il culo da mezzo mondo per le sue squadre belle sì, ma vincenti quasi mai. La folle idea di un calcio totalizzante (non totale nel senso che tutti giocano in tutti gli spazi del campo, ma totalizzante, nel senso che tutti sanno di essere la parte di un tutto che nell’incastro moltiplica l’efficacia) olandese unita all’esuberanza anarcoide russa ha partorito uno spartito musicale nervoso, fatto di strappi e balzi armonici, dove il ritmo è frenetico e fiaccante per gli avversari.

In porta uno dei portieri più affidabili d’Europa, Malafeev, mai capace di parate strepitose ma sempre presente, una difesa, che nei campionati definiti migliori farebbe ravvibridire perché segue l’istinto mentre dappertutto si predica la scientificità del movimento in simmetria, composta da due terzini esageratamente insavi come lo slovacco Sirl e Anyukov, dotati di una resistenza incredibile sfruttata nell’appoggiare in modo costante la manovra d’attacco, e due centrali come il cammellone Krizanac e l’antilope Puygrenier oppure lo sciroccato Shirokov, dotati di stacco e velocità.

Il centrocampo è poi un piatto che va servito tiepido. Il trio Tymoschuk-Zyryanov-Denisov è la cosa più vicina ad un’orchestra collaudata in cui le note, scandite e pausate, creano un’armonia esaltante. L’ucraino dirige le operazioni di squadra come un capitano di vascello, gli altri due si quadruplicano in lavori di cesello e ramazza, di forza e abilità.



Poi c’è l’attacco. Qui ci sono quattro uomini per tre posti. Il più presente è Alejandro Dominguez, un’infanzia nel Quilmes, una post-adolescenza nel River Plate, una parentesi nel Rubin Kazan e una vita tranquilla nello Zenit. Dominguez è l’ago, il barometro che stabilizza le giocate degli altri due servendone i movimenti e assecondandone i piaceri.

Il più sfortunato e Pavel Progrebnyak, stantuffo giocoliere di 1,88m che si muove come un operaio del gas ma fiuta lo spazio d’accesso al tiro in porta come solo il Toni giovane. In un’altra squadra secondo me sarebbe il peggiore in campo ogni partita, qui è il migliore perché è il satellite più grande del pianeta collettivo.

Il più fresco è il portoghese Danny, pagato 30 milioni di euro perché la Gazprom non bada a spese. Può diventare un Cristiano Ronaldo no-glam e se anche non ci riuscisse, resta un calciatore che osa.

Alla fine il più strambo di tutti, Andrei Arashavin. Una pallina di 1,72m, rubizzo e infagottato che riesce a scattare cinquanta volte a partita mantenendo lo stesso abbrivio nei primi dieci metri e la stessa velocità d’andatura. I difensori con un tipo come Arshavin impazziscono perché non rispetta i canoni del calciatore moderno: palla fra i piedi, tocco indietro per rigiro palla se affrontati da due uomini, oppure corsa sulla fascia per il tentativo del superamento esterno e il cross, al massimo dribbling interno con scodellamento del pallone sul secondo palo o tiro a giro.
Arashavin invece fa quello che la testa gli sconsiglia, si butta negli anfratti più chiusi e sporchi, corre per 80 metri palla al piede e invece di alleggerire all’indietro per lo scarico del compagno ri-accellera e punta alla porta, dribbla due uomini in una sola volta e invece di accelerare verso lo spazio aperto frena per convergere dove ci sono gli avversari. Un vero e proprio folletto che ti fa venire il mal di testa anche in poltrona.



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