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L’impronta dell’agricoltura sulla politica

Il mondo agricolo è in ebollizione pressoché ovunque. Il caso di due paesi giganti del settore primario, molto diversi tra loro, aiuta a intuire anche le problematiche di casa nostra, tra specificità ed elementi comuni.

I casi Brasile e India per leggere quello che accade in Europa e da noi

Le proteste di agricoltori e allevatori non sono esclusiva europea. Il settore manifesta ricorrente disagio ed esercita potenti azioni di pressione su esecutivi e parlamenti anche in altre aree del mondo, per rispondere a criticità in parte comuni e in parte specifiche. In Ue, come abbiamo visto, la protesta è rivolta contro alcune decisioni della Commissione che rientrano nei programmi di riduzione delle emissioni climalteranti, ma anche a richiedere ulteriore protezione dalle importazioni agricole e più in generale sostenere il reddito.

Ad esempio, congelando per l’ennesima volta il trattato di libero scambio col Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay), denominato informalmente “auto contro mucche, dove le auto sono quelle europee e le mucche quelle sudamericane. La Francia si è messa di mezzo, con Emmanuel Macron che ha detto di non poter imporre ai propri allevatori e agricoltori standard ambientali che non sono seguiti nei paesi da cui si vorrebbe importare più carne e prodotti agricoli. Nel frattempo, i tedeschi puntano a ottenere la riduzione dei dazi sudamericani, per trovare nuovi mercati di sbocco alle loro auto, già in sofferenza per la concorrenza cinese un po’ ovunque, e non solo sull’elettrico. Il risultato è lo stallo nell’avanzamento del trattato, il cui negoziato dura da lustri.

Guardiamo ora a due esempi, lontani ma vicini, dell’impatto che il settore agricolo esercita sulla politica, per trarne inferenze più generali e a noi geograficamente vicine.

INDIA, PICCOLO È FALLITO

In India, dove il primo ministro Narendra Modi punta al terzo mandato consecutivo, gli agricoltori sono furenti e organizzano lunghe colonne di mezzi agricoli, dando l’assedio alla capitale Delhi. l’India ha superato la Cina come paese più popoloso al mondo ma ha un enorme problema: come nutrire adeguatamente 1,4 miliardi di persone (ed esportare) con un settore agricolo fortemente arretrato, di piccola scala e spesso di pura sussistenza, dalle rese esigue ed ostaggio dei cambiamenti climatici.

Il settore agricolo indiano continua a restare indietro rispetto alla modernizzazione del paese. Secondo dati della Banca mondiale, il tasso di povertà delle regioni rurali indiane è del 25 per cento contro il 14 per cento di quelle urbane. Piccoli appezzamenti di terreno ad uso familiare, scarsa meccanizzazione, limitata capacità di contrasto dei parassiti vegetali, elevato indebitamento a costi superiori tra il 10 e il 25 per cento a quelli di mercato. Mercati all’ingrosso a controllo pubblico disorganizzati e disfunzionali. La rilevanza politica del comparto agricolo deriva dal fatto che il 65 per cento della popolazione indiana vive in aree rurali, e la maggior parte degli indiani sono coinvolti in attività agricole.

I coltivatori indiani chiedono al governo federale la fissazione di prezzi minimi. Che già esistono ma solo per acquisti pubblici di grano e riso, per finalità di welfare, oltre che per sostegni selettivi ad alcune produzioni. La richiesta è di imporre tali prezzi anche agli acquisti del settore privato. Ricorda qualcosa, dalle nostre parti? C’è poi il peso di un crescente indebitamento, che sta strangolando il settore ed è aumentato di un terzo negli ultimi sei anni. Il numero degli agricoltori indebitati è passato da 69 milioni a 100 milioni, a conferma della crescente antieconomicità del comparto agricolo. Qui le richieste sono per una cancellazione o alleggerimento sostanziale del debito. Il governo federale indiano eroga già a ogni agricoltore dei sussidi in denaro. Ma c’è anche la richiesta più radicale che l’India si ritiri dalla WTO, l’organizzazione mondiale del commercio.

Ma la modernizzazione si scontra con le richieste di conservazione dello status quo: nel 2021 il governo Modi è stato costretto a ritirare tre leggi che avrebbero riformato i mercati all’ingrosso, oggi in mano pubblica, consentendo l’ingresso dei privati. Gli agricoltori hanno assediato la capitale Delhi, sostenendo che l’ingresso dei privati avrebbe portato alla cancellazione degli aiuti pubblici e all’aumento della concentrazione nelle mani di poche grandi imprese. In pratica, è come se i piccoli e piccolissimi farmer dovessero scegliere se essere rovinati per mano dell’aumento di concentrazione oppure per l’antieconomicità della loro dimensione. Nel mezzo, i bilanci pubblici.

Come si nota, in India è massimamente visibile il tradeoff tra modernizzazione e mantenimento dello status quo. La prima implica l’aumento di concentrazione e della dimensione media dell’impresa agricola, che è quello che serve per conseguire maggiori rese e spese per fitofarmaci e quello che può contrastare il devastante impatto del cambiamento climatico. La conservazione punta invece a chiedere sovvenzioni pubbliche in quantità crescente, tra prezzi minimi generalizzati, sovvenzioni pubbliche e cancellazione del debito.

Come detto, la mancata modernizzazione dell’agricoltura in un paese che sta tentando il decollo manifatturiero ad alto valore aggiunto è un freno che può rivelarsi decisivo. Il paese è assoggettato a vincoli alle esportazioni, sia per limiti alle rese che per volontà politica di calmierare periodicamente i prezzi delle derrate agricole che entrano nella alimentazione corrente della popolazione.

Prendere l’India a esempio dei problemi che possono sorgere nella tensione tra conservazione dell’esistente e modernizzazione, quando si analizzano le condizioni del settore agricolo in altri paesi, non è una forzatura. La memoria corre subito al caso italiano, con la sua frammentazione della proprietà agricola, indotta dalle condizioni territoriali ma anche e soprattutto da forti resistenze opposte da chi cerca di proteggere la propria indipendenza economica, ormai sempre meno tale perché legata in modo sempre più stretto a sussidi e protezioni.

BRASILE, NO ALLA DECARBONIZZAZIONE

Ma il settore agricolo entra in rotta di collisione anche con la decarbonizzazione. In un altro paese emergente, potenza mondiale dell’agribusiness, il Brasile, in parlamento esiste un vero e proprio partito trasversale (caucus) degli interessi di agricoltori e allevatori, che secondo Bloomberg accoglie il sessanta per cento dei parlamentari, la cui azione sul processo legislativo è mirata a ridurre l’impatto delle norme ambientali e i limiti allo sfruttamento dei terreni degli indigeni.

L’agribusiness ha un peso decisivo nella vita politica del Brasile: il paese è il primo esportatore mondiale di carne di manzo, soia e altre materie prime. Il settore pesa per circa un quarto del prodotto interno lordo e contribuisce, nel bene e nel male, alla creazione di risorse fiscali necessarie alle riforme sociali e ambientali che il presidente Lula vuole promuovere. Anche se è opportuno ricordare, in quest’epoca di contrasti e contraddizioni, che il Brasile sta battendo mese dopo mese i propri record di estrazione di gas e petrolio.

Politicamente, il cuore dell’agribusiness brasiliano batte soprattutto a destra, come dimostra il sostegno offerto all’ex presidente Jair Bolsonaro.

Il settore è così protetto, a livello politico, da riuscire a neutralizzare il piano del governo Lula che puntava a includerlo nel sistema di tetti e quote alle emissioni di anidride carbonica (cap and trade), di cui è il secondo generatore nazionale, con un quarto delle emissioni, oltre ad essere responsabile di una parte rilevante della deforestazione.

Con queste premesse, è evidente che l’approccio di Lula, volto a contemperare le esigenze della produzione con quelle di decarbonizzazione, finisce dritto in rotta di collisione con gli interessi del settore. Il momento di dialogo e pace di solito si raggiunge con l’introduzione di sussidi per contrastare il calo dei prezzi e impedire che il settore cada vittima dell’indebitamento, e i danni da cambiamento climatico, che colpiscono le rese. Ma non appare esattamente una policy proattiva.

Quali insegnamenti possiamo trarre, da questa rapida ricognizione su due settori agricoli molto distanti per modernizzazione ma molto vicini per impatto sulla politica? Che, appunto, agricoltura e zootecnia restano molto influenti sulle scelte degli esecutivi e dei parlamenti. Che le tendenze alla conservazione dello status quo sono un formidabile ostacolo sia alla modernizzazione che alla decarbonizzazione. Sta succedendo ovunque, anche in Nuova Zelanda, col ritiro della tassa sulle emissioni agricole, che doveva partire il prossimo anno.

Il settore riesce a presidiare e indirizzare l’attività di esecutivi e parlamenti, facendo leva sia sul proprio peso sull’economia nazionale che -soprattutto- sul concetto di autosufficienza alimentare, che è centrale soprattutto in quest’epoca di nazionalismi e sovranismi.

Tutto ciò premesso, e dopo aver tratteggiato a grandi linee il quadro delle dinamiche politiche, dovrebbe risultare più agevole la comprensione di alcune situazioni europee e, soprattutto, italiane.

P.S. Piccola osservazione a pie’ di pagina: indovinate chi è il primatista mondiale di sussidi agricoli? Ma sì, sempre loro:

Fonte

Foto di Wolfgang Ehrecke da Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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