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L’azzardo di Israele

Siamo tutti distratti dall'attacco simbolicamente rilevante alle forze Unifil, come simbolicamente rilevante è l'incongruenza di una missione di peacekeeping nel corso di una guerra aperta.

Le missioni di peacekeeping, a differenza di quelle di peaceenforcing, hanno senso quando entrambi i belligeranti decidono di sospendere il fuoco e di affidare a una forza terza il controllo della linea di demarcazione. Qui è da un anno che il fuoco è ripreso. Quella missione doveva forse essere sospesa e i caschi blu ritirati in attesa di tempi migliori, ma la dirigenza Onu non sembra aver preso in considerazione la necessaria prudenza.

Sta di fatto che nel frattempo ci stiamo tutti dimenticando che probabilmente il governo israeliano è pronto a dare luce verde alla ritorsione contro l'Iran. Ritorsione attesa e legittima secondo il diritto di autodifesa, visto che il regime degli ayatollah ha scaricato direttamente sul territorio israeliano circa 400 missili nelle due tornate di attacco (13 aprile e 1 ottobre) in seguito all'uccisione del leader di Hamas a Teheran (attribuito a Israele, ma mai rivendicato) e a quello di Hezbollah a Beirut. Di fatto non c'era stato in precedenza nessun attacco diretto, dimostrabile, da parte di Israele contro il territorio iraniano o contro strutture civili e militari in Iran. Anche se sue forze e consiglieri militari erano stati colpiti a più riprese in Libano, Siria e Iraq.
Non è realistico pensare che il governo israeliano soprassieda a quella che è a tutti gli effetti una doppia dichiarazione di guerra aperta da parte di Teheran, nonostante i rischi paventati ovunque di una escalation potenzialmente incontrollabile del conflitto. Una mancata risposta sarebbe interpretata come segno di debolezza e Israele non ha alcuna intenzione di mostrarsi debole. Non dopo il 7 ottobre. A meno di forti pressioni dagli stati del Golfo timorosi di una possibile reazione sui loro impianti.

Nel caso che la ritorsione sia decisa, è possibile che Netanyahu - ferma restando la priorità in questo caso delle esigenze militari - cerchi di avvicinarla il più possibile alla data delle presidenziali americane fra tre settimane, per mettere in difficoltà Kamala Harris e influenzare il voto a favore di Donald Trump. Poi, anche se vincesse il candidato repubblicano, ci sarebbe tempo fino all'insediamento del nuovo presidente, il 20 gennaio, per un'azione di forza di Joe Biden, ancora alla Casa bianca e libero da ogni preoccupazione elettorale, finalizzata a mettere a freno Israele con molta determinazione. È quello che alcuni sperano e che altri temono, per motivi ovviamente opposti.
Nel caso che si decida di procedere, è un altro motivo per aspettarsi la ritorsione entro la fine del mese.

L'ipotesi prevalente è quella che Israele voglia colpire i sistemi difensivi iraniani per poter continuare più tranquillamente in seguito con attacchi successivi. L'altra possibilità è che Israele decida di colpire le raffinerie di petrolio, in modo da mettere in ginocchio la già traballante economia iraniana. Cosa che potrebbe avere poi delle pesanti ripercussioni per il regime all'interno del paese, ma anche sul prevedibile aumento del prezzo del greggio.

L'atteggiamento dei sauditi diventerebbe in questo caso una interessante spia delle loro reali intenzionalità: un loro aumento della produzione, finalizzata a contenere l'aumento del prezzo del barile, rivelerebbe una sostanziale connivenza con l'attacco israeliano e la decisione di coprirne le conseguenze economiche. Se non lo facessero sarebbe evidente la loro irritazione per una escalation non voluta. Lascerebbero Israele solo a prendersi tutti i malumori globali.



Nel frattempo lo stato ebraico rischia sul piano militare, avendo molti fronti aperti simultaneamente (Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria, Iraq e Iran), anche se pochi sembrano in grado di impensierirlo davvero. Anche una saturazione delle difese aeree, con lanci di molte centinaia di missili tutti insieme, sparati in simultanea da molti paesi (cosa ritenuta possibile nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre) oggi sembra meno probabile. Le formazioni islamiste in Siria e Iraq non sembrano così preparate; Hamas, nonostante sia ancora in grado di sparare qualche razzo dalla Striscia, è stata indubbiamente ridimensionata e continua a subire colpi molto pesanti; gli Houthi sono tenuti relativamente a bada dalle navi occidentali.
Restano Hezbollah, sotto pressione dopo che la sua struttura dirigenziale è stata falcidiata, e l'incognita Iran. Entrambi pericolosi, ma forse alla portata di Israele (eventualmente con qualche aiuto). In sintesi lo stato ebraico non sembra sul punto di collassare sotto i colpi dei suoi mortali nemici.

A meno che i governi dei due paesi arabi confinanti, Egitto e Giordania, non dovessero cedere improvvisamente sotto la spinta di opinioni pubbliche fortemente impressionate dalla guerra condotta da Israele a Gaza e in Libano e unirsi ai combattimenti. A quel punto il pericolo di sopravvivenza per Israele diventerebbe davvero serio perché la sua realtà è pur sempre quella di una minuscola isola in mezzo a un oceano islamico sostanzialmente ostile.
Il suo futuro dipende dalle divisioni del campo avverso e dal sostegno occidentale (americano). Anche se oggi in Occidente prevale una tendenza di destra, antiislamica, sarebbe deleterio perdere di vista i ricorsi storici e il possibile avvento in futuro di una presidenza di tutt'altro segno. "Biden - ha scritto Tom Friedman - sarà l’ultimo presidente democratico pro-Israele".

Per quanto Netanyahu sembri essere il più scaltro manovratore della politica israeliana, la sua strategia di regime change (abbattere l'Asse della resistenza manovrato da Teheran per creare un ipotetico fronte arabo-israeliano antisciita, fondato sugli Accordi di Abramo e dominante su tutto il vicino oriente al posto di quello filoiraniano) potrebbe rivelarsi una mano di poker davvero azzardata.

E tuttavia, come dimenticare che l'esistenza stessa di Israele in fondo non è altro che un azzardo da oltre settanta anni?

Foto White House/Flickr

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