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Home page > Tempo Libero > Cinema > L’attesa, film. (La vita che ti diedi)

L’attesa, film. (La vita che ti diedi)

Non è morto ora.
Io piansi invece di nascosto, tutte le mie lagrime quando me lo vidi arrivare: – (e per questo ora non ne ho più!) – quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio».
È la voce disperata di Donn’Anna, la madre del dramma teatrale di Pirandello, a cui si è "ispirato" il regista del film (Piero Messina). La storia, la ricordiamo, è quella di una madre che, dopo un’assenza di 7 anni del proprio figlio, anni in cui egli non si è fatto mai più vivo con lei, neanche con uno scritto, si vede ritornare un estraneo, un essere invecchiato, senza quasi più capelli, che non ha più nulla del bambino, del ragazzo, del giovane che ella portava nella memoria del suo cuore. È tornato a morire e colà muore.
 
Già dal titolo stride il dramma della protagonista. La coniugazione del verbo al passato remoto, non la vita che ti ho dato, in cui la reggenza del verbo al passato prossimo, porrebbe in essere una continuità del rapporto mamma-figlio nell’esistenza in vita, bensì, quasi un rimprovero per quell’essere che fu il figlio, un amaro biasimo per quello che non potrà più essere ma che pure resta. Ma ‘l’Altro’, lo sconosciuto, non potrà mai essere un altro da lei, è lei stessa, una molecola sua a cui ha dato la vita, il cui cordone ombelicale non potrà essere reciso da avvenimenti esterni, quali che siano.
 
Viene qui, in questo Pirandello, sottolineato in modo magistrale quello che differenzia alla base ultima la donna dall’uomo, non il genere per il genere biologico ma il suo grembo, da cui nasce la continuità della vita, del mondo, in quello che ella darà al nascituro, il rapporto madre-figlio, che nessun rapporto maschile padre-madre potrà mai dare ad un bambino.
 
Anche se silente, quasi inavvertito, c’è un altro protagonista nel dramma, il Tempo ed il suo fluire, che dà il tessuto della continuità connettiva della tragedia. Pur se nomina Dio, Donn’Anna non crede. Non ci sarà un Tempo della resurrezione. Eppure, disperatamente, è necessario, desiderato. Ecco che la necessità della speranza trova il suo Lazzaro nel figlio che Lucia porta in grembo. Allora Lucia, la compagna del figlio, che sta per arrivare ed ignora la morte del suo uomo, dovrà restare presso di lei, dare nuova vita, attraverso il suo, al figlio di Donn’Anna. Un Tempo che non si svolge più in linea retta ma in un andamento circolare che ritorna su se stesso lungo una linea curva.
 
E la stessa Lucia vorrà restare, farà resistenza per andar via. Ma Donn’Anna, con un sovrumano colpo di reni della volontà, rientrerà in sé, capirà che comunque quella maternità non potrà mai essere la sua, ma soltanto di Lucia. E che Lucia ha il diritto di vivere la propria giovane vita lontano da lì. Donn’Anna, il più bel personaggio femminile uscito dalla penna di Pirandello!
 
Ecco, tutto questo, la tensione, la lotta, l’altezza del personaggio, il pathos del dramma nella discrasia fra il fluire del tempo meccanico e quello dell’anima che, con immutato amore, conserva uguali i suoi sentimenti, non l’ho trovata nel film. Certo, il regista lo dice“ispirato al dramma di Pirandello”. A me, però, sembra di vedere nel film una sotterranea vena malandrina che appoggia la levità della rappresentazione al soggetto del dramma pirandelliano.
 
Un’opportunità persa per una trasposizione parallela nella dimensione cinematografica, con la possibilità di differenziare, con questo mezzo, attraverso i flashback, le dissolvenze incrociate ed i chiaroscuri delle luci da dare alle scene ed ai volti, l’approfondimento e scavo anche dei profili psicologici dei personaggi.
 
E Pirandello esprime questa necessità delle luci attraverso delle disposizioni ben precise, intercalate ai dialoghi dei protagonisti, ad es. “…Anche la luce che entra da un’ampia finestra pare provenga da una lontanissima vita”.
 
Aderenti nel film la descrizione fotografica degli interni a ben sottolineare attraverso i luoghi, il senso di rarefazione di vita che aleggia nell’anima, senza eccedenza di lunghezze estetizzanti. Stupende anche le immagini delle sequenze che accompagnano il viaggio della giovane Lucia verso la casa. Sempre rimanendo alla pellicola: fotografia tecnicamente ben fatta, con qualche indugio nei tagli di eccedenze fotografiche nel montaggio.
 
Più che buona l’interpretazione di Juliette Binoche, sottolineata da ottima professionalità dalle piccole contrazioni dei muscoli facciali nei momenti di maggior tensione intima.
Fresca e spontanea quella della giovane attrice (Lou de Laȃge), veramente capace e meritevole.
 
Le scene che mi son piaciute di più, quella della Binoche-mamma nel suo dialogo con l’immagine del ricordo (il figlio piccolo nella vasca da bagno) e quella dell’abbraccio finale fra le due donne, in cui vien ben rappresentato che non sono più due persone che si sono sfiorate superficialmente per qualche giorno, ma due anime che si fondono in una sola molecola nel dolore comune.Rapacemente sensuale e bella la scena del ballo.
In ultima analisi un film, prima opera, non brutto, in cui pecca, però, un’anima latente autonoma, che fatica a venire in vita.
(paolo patrone)
 
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Dando un’occhiata in giro, vedo che la tendenza interpretativa più recente del dramma è quella della lettura freudiana-psicoanalitica. Il più robusto ed esasperato dei quali, Massimo Castri, considerato “il più geniale dei registi pirandelliani degli anni Settanta e Ottanta, ne ha allestito una memorabile rappresentazione (3 febbraio 1978, Centro Teatrale Bresciano) con evidenziazione del tema dell’incesto nell’opera pirandelliana".

Qualche riferimento dai suoi taccuini di lavoro per la rappresentazione de ‘La vita che ti diedi’: “Pirandello esprime tutto il macabro che l’uomo sente nella donna-madre, nella donna che ti ha totalmente posseduto una volta, e non può quindi dimenticare questa volontà di possesso totale…
 
Le due protagoniste della commedia sono donne dalla sensualità-sessualità completamente castrata, addirittura assente: si realizzano solo nella maternità… sono donne compiutamente represse e compitamente fasciste.
 
L’uomo deve essere odiato: la donna può amare solo il Figlio, ma per avere un figlio deve essere amata da un uomo; e allora il grande desiderio, il grande disegno, è farsi amare dal Figlio per avere un altro figlio. Da questo punto di vista la scena è paurosa: è un’orrida scena d’amore tra due congiurate omosessuali, tra due assassine.”.
 
Altra memorabile rappresentazione è quella andata in onda al Teatro Quirino di Roma nel dicembre del 2014, di cui ne dà una magnifica recensione Maurizio Bonanni:
 
“…Particolare interesse desta la scenografia di Gisbert Jaekel, che sceglie il bianco abbagliante, e le violazioni di scala, muovendo il piano della proiezione mongiana (Gaspard Monge è il grande inventore della Geometria Descrittiva), verso quello della rappresentazione, che prende ispirazione dalle prospettive ribaltate del piano giottesco, prima, e di quello cubista di Braque, poi.
 
Il palcoscenico diviene, così, un tragico piano inclinato, in cui le pareti accentuano sfacciatamente le loro linee di fuga, per convergere verso un grande portale rinascimentale marmoreo, sorta di forca caudina, dove transitano, per il breve tempo necessario, le figure e gli ospiti più importanti di quella casa, che nega la morte. E lo fa attraverso la luce dirompente, violenta, che penetra sulla scena da un abnorme finestrone, frontistante alla porta, altrettanto ciclopica, della camera del dolore…”.
 
Non so perché queste rappresentazioni di Pirandello non cadono più a Milano, ove erano di casa negli anni ’70-’80.

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