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L’agenzia di rating "Fitch" assegna i voti all’Italia

L'agenzia di rating americana declassa l'Italia a BBB+ da A- con outlook negativo. Pesa il risultato elettorale che rende "improbabile che un nuovo governo stabile possa essere formato nelle prossime settimane"
 

Da tempo si sostiene da più parti che le agenzie di “rating” americane – tra esse “Fitch” – sono enti di emanazione privatistica con interessi ed obiettivi non sempre chiari e comprensibili. La tempistica dei loro interventi suscita, oltretutto, comprensibili perplessità.

Sarebbe opportuno, quindi, non tenere conto o comunque assegnare valore marginale e non impegnativo alle loro diagnosi poco obiettive ed in evidente conflitto d’interessi.

Intanto però la stampa internazionale ed anche quella nazionale continuano a pubblicizzare i responsi di queste agenzie private. Da tempo si prospetta la necessità e l’opportunità di un’agenzia europea di valutazione (rating) di emanazione pubblica, con chiari e definiti obiettivi.



Nel caso specifico la valutazione dell’agenzia coglie un momento dell’Italia non proprio esaltante dal punto di vista politico, economico e sociale. Le prospettive (outlook) evidenziano, di fatto, molti elementi di problematicità. A prescindere dai voti di “Fitch” è auspicabile che la fase di transizione, segnata da forti novità nell’assetto della politica, possa preludere ad un nuovo percorso poggiato su capacità di visione, minore egoismo sociale e maggiore coesione nazionale nell’ottica della possibile crescita complessiva del Paese.

L’Italia – sol che lo voglia - ha mezzi e personale per impostare questo disegno positivo e lungimirante. Le diagnosi delle agenzie di rating, d’altro canto, cogliendone opportunamente l’aspetto benefico e stimolante, potrebbero essere l’occasione per una comune riflessione sugli errori commessi (in buona e mala fede) e sulle azioni (ri)costruttive da porre in cantiere.

Sarebbe opportuno che l’agenzia “Fitch” e le sue analoghe “sorelle” (Standard&Poor's e Moody's) dedicassero molta più attenzione alla loro terra d’origine – gli Stati Uniti d’America - pressata da un debito pubblico di 16.500 miliardi di dollari, da un crescente deficit di bilancio e da un possibile “burrone fiscale” (fiscal cliff) che rischia di mettere in discussione un milione di posti di lavoro dalla sera alla mattina, nonostante gli apprezzabili, condivisibili tentativi del Presidente Obama di contrastare l’intransigenza e l’egoismo dei deputati repubblicani, in maggioranza al Congresso americano.

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