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L’Amazzonia che non ti aspetti


Di seguito vi riporto un pezzo da me pubblicato sulla vicenda degli Indios Guaranì Kaiowa, del Mato Grosso do Sul, in Brasile.


"La nostra terra è la terra dei nostri antenati, e ora ci chiamano invasori. Loro dicono di averla comprata, ma noi l’abbiamo ereditata".

Comincia così l’incontro con Ambrosio Vilhalva, capo villaggio e guida spirituale della comunità Guyra Roka, che, insieme agli altri compagni, ha occupato le terre natali quattro anni fa.

Ambrosio è un uomo sulla quarantina, dai lineamenti tipicamente indio. Intorno a sè diffonde una calma non comune, ma ciò che più colpisce è lo sguardo. Gli occhi neri e profondi fissano intensamente l’interlocutore, suscitando quel tipico timore reverenziale rivolto a chi, dalla vita, ha avuto non poche sofferenze.

I Guaranì-Kaiowà sono i discendenti di quegli indigeni che entrarono in contatto alla fine del ’500 con gli europei arrivati via mare. A quell’epoca contavano più di un milione di persone, mentre oggi ne sopravvivono alcune decine di migliaia. Dopo aver subito la perdita quasi totale delle loro terre, vivono confinati in quelle che dovrebbero essere riserve, ma che non sono altro che fazzoletti di foresta, dove non c’è rimasto più nulla, né pesce, né selvaggina, né terra da coltivare.

È da questo punto che nasce il film, scritto e diretto da Marco Bechis: "La terra degli uomini rossi. Birdwatchers".

La storia infatti racconta le reali vicissitudini della comunità indio che, dopo l’ennesimo suicidio di un giovane, decide di occupare una porzione di terra, al limite di una proprietà di alcuni ricchi fazendeiro della zona, rivendicandone la restituzione.

I protagonisti, per la prima volta, sono gli stessi indios e grazie a Bechis, si sono reinventati attori: "Ho capito, fin dal primo contatto, di aver trovato il film - conferma il regista - ma soprattutto di aver trovato gli attori. Possiedono infatti un teatralità propria, sia nei movimenti che nella retorica".

Mato Grosso significa foresta fitta, ma di quella foresta non ce n’è più traccia. Al posto degli alberi ci sono sterminate piantagioni di canna da zucchero - per la produzione di bioetanolo - e di soya geneticamente modificata.

"Al tempo della dittatura ci furono date delle riserve, ma lo spazio non è più quello di un tempo, non c’è più tutta quell’area boschiva. Non abbiamo in pratica dove vivere - afferma con vigore il capo villaggio. La terra dei nostri antenati è per noi terra sacra, ed è per questo che vogliamo tornarci".

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