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Julian Assange e i giornalisti palestinesi: una storia comune

Il sindacato dei giornalisti palestinesi ha annunciato lo scorso mese di gennaio che, nel 2022, sono state perpetrate 902 violazioni dei diritti umani ai danni dei giornalisti palestinesi da parte di Israele. Il 2022 è stato tra gli anni più tragici di sempre per i giornalisti, anche caratterizzato dalle uccisioni della giornalista Shireen Abu Akleh, corrispondente per Al Jazeera, e della corrispondente e speaker radiofonica Ghufran Al-Warasneh.

Sempre secondo il sindacato, solo nel 2022 sono stati sparati 52 proiettili contro gli operatori dell’informazione e sono stati eseguiti 40 arresti, mentre sono 58 i giornalisti portati davanti ai tribunali militari. Ad oggi, risultano 17 gli operatori, tra uomini e donne, ancora detenuti nelle carceri israeliane.

Lo stato di Israele si arroga il diritto di utilizzare lo strumento della detenzione amministrativa, quindi senza alcun reale capo d’accusa, per detenere non solo i civili ma anche i tecnici dell’informazione, nella speranza probabilmente che non trapelino negli stati occidentali fotografie o video che documentino i crimini di guerra da loro attuati in questi ultimi 75 anni.

Ed è qui iniziano le corrispondenze con il caso di Julian Assange.

Il 7 marzo di questo anno, il Fatto Quotidiano pubblica in rete il video dell’ intervento presso Montecitorio di Stella Assange, moglie ed avvocato difensore di Julian, che definisce molto chiaramente quello di suo marito un caso politico e non giudiziario. Proprio per questo motivo, a suo avviso, è estremamente complesso riuscire a farlo uscire dal carcere.

Stella dichiara che Assange non sta scontando alcuna pena ma che è detenuto da quattro anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh in Inghilterra solo per arrecargli sofferenza e per fare di lui un caso. In effetti, nei confronti del giornalista, non c’è un reale capo d’accusa. Nonostante questo, resta in piedi la richiesta di estradizione verso gli Stati Uniti, con conseguente carcere a vita per un totale di 175 anni. Ricordiamo inoltre che il giornalista è stato privato della sua libertà oramai da più di dieci anni.

Molti, erroneamente, collegano l’editore Julian Assange agli Usa. Come ci narra eccellentemente la giornalista investigativa Stefania Maurizi nel suo ultimo libro “Il Potere Segreto”, invece, WikiLeaks ed Assange hanno stravolto il mondo dell’informazione in vari modi: ad esempio, attraverso la diffusione di informazioni in merito alle implicazioni politiche italiane nelle coesioni mafiose per la gestione dei rifiuti o al supporto economico del Vaticano per la vendita di armi; al rapporto Afghan War Logs o ancora Collateral Murder, che esposero a tutto il mondo il massacro di civili durante la guerra in Iraq nella città di Baghdad.

In quella circostanza, due fotoreporter della famosa agenzia di stampa Reuters persero la vita. L’organizzazione WikiLeaks evidenziò l’importanza della tutela delle fonti attraverso messaggi criptati e la possibilità, per ogni cittadino del mondo, di attingere a file informativi sulla violazione dei diritti umani, attraverso pubblicazioni in rete, per poter così verificare personalmente se la stampa stesse censurando o meno la reale narrazione dei fatti.

Sebbene la Reuters cercò di comprendere le dinamiche legate alla morte dei suoi giornalisti, i portavoce del Pentagono li convinsero che si tratto di scomparsa accidentale. Fu solo grazie alla pubblicazione del video in rete da parte di Assange che i responsabili dell’ agenzia si resero conto di essere stati presi in giro per molto tempo, e che i due uomini, insieme ad altre persone, furono invece vittime di un tiro al bersaglio da parte dei piloti americani.

La detenzione amministrativa nei confronti dei civili palestinesi, degli attivisti e dei giornalisti, attuate in questi decenni dallo stato di Israele, hanno creato un precedente pericoloso e un modello da seguire per gli stati occidentali, mettendo così a rischio il lavoro di attivisti e giornalisti non solo in Medio Oriente, ma anche in altre nazioni, come Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Usa e via dicendo.

In un possibile futuro, qualsiasi giornalista che decidesse di diffondere video, fotografie o inchieste accusando uno stato di crimini di guerra, compreso Israele, rischierebbe una condanna a vita. A quel punto, non potrebbe essere tutelato da alcuna forma di attivismo per i diritti umani, perché prevarrebbe il principio della sicurezza nazionale.

Era infatti il 2008 quando gli attivisti di WikiLeaks entrarono in possesso di una conversazione tra alti rappresentanti del Pentagono ed agenti segreti, in cui si definiva questo tipo di informazione “pericolosa”, e si invitavano gli Usa ad attuare misure restrittive come in Israele e Cina, considerando che oramai la sola censura non sarebbe più servita.

Da allora, iniziò un puntiglioso lavoro di ricerca delle fonti, tesa a neutralizzarle non solo screditandole, ma distruggendo la loro vita, facendo in modo che perdessero il lavoro e, in ultima istanza, che fossero incarcerate.

Se Julian Assange non venisse scarcerato e fosse invece estradato verso gli Stati Uniti e condannato a 175 anni di carcere – solo per avere dato la possibilità a quotidiani come The Guardian, L’Espresso e altri di pubblicare le prove di diversi crimini attingendo ai suoi file – si creerebbe un precedente molto pericoloso: la possibilità stessa di condurre inchieste e soprattutto di tutelare le fonti sarebbe esposta a un rischio, con danni di dimensioni catastrofiche nei confronti degli organi di informazione e non solo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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