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 Home page > Tribuna Libera > Italia e crisi: l’importanza dell’autocritica

Italia e crisi: l’importanza dell’autocritica

Capita spesso di andare sul web e di leggere articoli secondo i quali la situazione in cui si trova l’Italia oggi è causata da complotti ideati ad hoc contro di noi da una super forza occulta che tutto controlla: la FIAT investe sempre meno in Italia, perché la Famiglia Agnelli è irriconoscente; l’Unione Europea ha interesse a distruggerci; dobbiamo uscire dall’Euro; è tutta una truffa; etc.

Il rischio populismo è sempre presente dove non si è capaci di autocritica.
La nostra nazione soffre mali a tutti i livelli ma nessuno se ne cura: la produttività è tra le più basse del vecchio continente, non si parla di politica industriale da anni, l’assenteismo altissimo nei posti di lavoro pubblici e privati, l’evasione fiscale la fa da padrona, le corporazioni dominano il paese noncuranti della ricchezza che sottraggono, la questione energetica è più fondamentale ma non trattata.
In un contesto del genere, la migliore risposta che gli Italiani hanno trovato è puntarsi il dito l’uno contro l’altro. I cittadini contro la politica, la politica contro gli industriali, gli industriali contro i sindacati, i sindacati contro tutti.

Ma chi è dalla parte del torto e chi dalla parte della ragione? Forse tutti, forse nessuno.

Se guardiamo ai difetti della nostra classe lavoratrice, è evidente perché le aziende non investono più in Italia. Una classe operaia con poche ambizioni che non tenta di migliorare la propria produttività e che raramente tenta di “far carriera”, guidata da un sindacato che lavora coi paraocchi dei “diritti per tutti”, assenteisti compresi e che in decenni non è ancora riuscito ad assimilare i concetti di efficienza necessari a sopravvivere nel mercato globale.
I corsi di aggiornamento, la voglia di assimilare nuove tecnologie e di tenersi al passo coi tempi è merce rara nei lavoratori del nostro Bel Paese.

Il distretto industriale, colonna portante della nostra economia, basato per anni su un modello di sviluppo estensivo tipico dell’ex URSS, modello miseramente schiacciato dal più competitivo capitalismo, dimostratosi molto più efficace nell’applicazioni dei concetti microeconomici.
Distretto italiano quasi mai orientato all’eccellenza e all’innovazione, quasi sempre alla ricerca del risparmio di qualche centesimo piuttosto che all’incremento del valore aggiunto del proprio prodotto.


A palesare tutto ciò la grande “invasione cinese” dei nostri distretti, governati quindi da un modello di business più adatto ad un paese in via di sviluppo che ad una grande economia industriale.

Vi sono poi le corporazioni con relativi “cartelli”. Notai, tassisti, dipendenti pubblici etc.
Gruppi di potere che pongono forti barriere all’entrata nel mercato di potenziali nuovi concorrenti e che rappresentano un costo enorme per chi ha bisogno dei servizi da essi erogati.

Questo contesto è governato da una classe politica imbarazzante, impreparata, opportunista e inefficiente. Una struttura complicata in cui spicca una burocrazia lenta e macchinosa. Il problema non sembra tanto il costo assoluto della classe politica sul bilancio dello stato (nei paesi scandinavi il settore politico è più ampio rispetto a quello italiano), ma la totale mancanza di costo-efficienza di questa.
Se un deputato con una scelta giusta si dimostra in grado di far progredire il paese, non vedo perché non debba guadagnare 15.000 euro al mese. 

Invece purtroppo i politici si nascondono dietro a frasi fatte, dietro all’Europa, croce e delizia di quest’ultimo decennio, risultando inconcludenti nelle scelte e non dando nessun apporto al nostro sistema economico e sociale.
Menzione particolare va ai partiti che vorrebbero contrastare questa “classe politica obsoleta”, i quali invece di cercare una svolta di competitività, invece di cercare un piano industriale che manca da anni, passano le giornate a denunciare presunti “poteri forti”, occulti e non, che ci vogliono distruggere

Odiamo i poteri forti che guidano il capitalismo ma vorremmo essere ricchi, avere un lavoro, consumare, vorremmo insomma essere capitalisti.

La storia ci insegna che la ricchezza è fatta di cicli, cicli innescati da popoli operosi che si sono rimboccati le maniche, cicli sostenuti da una grande voglia di innovare e, perché no, da un po’ di fortuna. Dobbiamo solo capire chi siamo e dove vogliamo andare, gli investitori sono li che aspettano un segnale positivo. Il tempo delle lamentele è finito, è ora di fare autocritica tutti insieme, operai, imprenditori e politici, e di dimostrare che siamo in grado di ripartire, magari anche oggi, con un sempre gradito taglio al cuneo fiscale.

Foto:Doug/Flickr

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