Israele e i quattro cerchi
“La tensione politica in Medio Oriente procede per cerchi concentrici”, scrivevo ad aprile cercando di dare un’idea della complessa situazione mediorientale post-7 ottobre.
“Nel mezzo c’è l’annosa questione palestinese, il cerchio più piccolo, che non è altro che il detonatore indispensabile per innescare altri conflitti” a cui segue poi un “secondo cerchio [che] riguarda Israele e i paesi arabi confinanti, ieri coinvolti nel panarabismo nasseriano sostenitore di un conflitto aperto con lo stato ebraico e oggi divisi fra quelli in rapporti di buona vicinanza (Egitto e Giordania) e quelli (Siria e Libano) ancora in stato di guerra latente fin dal 1948”. E c’è infine, concludevo, un “terzo cerchio [che] chiama in causa il panislamismo khomeinista di Teheran, determinato a imporre, sfruttando l’ostilità verso Israele, la propria egemonia” sulle masse arabe e sul mondo islamico tutto, giocando così un ruolo di levatura globale nel novero delle grandi potenze (che costituirebbe in sostanza il quarto cerchio, quello in cui si decidono alla fine i nuovi assetti del mondo).
Come abbiamo visto l’attuale situazione di conflitto aperto ha seguito esattamente la successione dei tre cerchi elencati. È iniziato (benché radicato nell’irrisolta questione israelo-palestinese precedente) con il superamento da parte di Hamas di una evidente linea rossa (quella che ha richiamato l’angoscia da fine del mondo tipica della memoria lasciata dalla Shoah nella mentalità ebraica) che ha indotto il premier Netanyahu a dichiarare ufficialmente guerra a Gaza. È proseguito con la resa dei conti con Hezbollah che dal Libano ha bombardato incessantemente Israele fin dall’8 di ottobre ed è arrivato infine a lambire il terzo livello con due attacchi missilistici diretti dell’Iran contro Israele (responsabile presunto della eliminazione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh su suolo iraniano e poi di Nasrallah a Beirut).
In attesa della reazione israeliana ai duecento missili balistici iraniani, questo scontro pretende una ricostruzione storica che risalga alle fonti, alla rivoluzione khomeinista del 1979, definita un salto indietro di secoli rispetto alla monarchia degli Scià, secondo lo psichiatra italiano Massimo Fagioli, mentre trovava simpatie nell’estrema sinistra antimperialista al seguito di certe espressioni positive del filosofo Michel Foucault.
Come è noto la neonata repubblica islamica si trovò da subito coinvolta nella guerra di aggressione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, guerra iniziata nel 1980, durata fino al 1988 e terminata con un milione di morti.
Casualmente, ma forse non tanto casualmente, nello stesso 1988 il movimento di Hamas pubblicava il suo statuto fondativo che conteneva la prima indiscutibile affermazione di voler distruggere Israele (“porre nel nulla l’entità sionista”, secondo il lessico islamista mutuato dai discorsi di Khomeini stesso che aveva dichiarato lo stato ebraico “nemico dell’Islam”). L’Iran procedette con la rottura delle relazioni diplomatiche appena il nuovo regime prese il potere a Teheran. Nonostante ciò lo stato ebraico gli concesse supporto militare durante la guerra con l’Iraq (operazione Seashell, 1981).
La situazione si è poi aggravata con la decisione iraniana di procedere con l’arricchimento dell’uranio a fini militari. È palese che per uno stato piccolo come Israele, il cui cuore nevralgico e metà della popolazione sono concentrati dell’area della Grande Tel Aviv, l’arma atomica, in mano a un nemico dichiaratamente determinato alla sua eliminazione, costituisce un problema esistenziale.
Lo scontro in atto viene quindi da lontano e si propone di arrivare, prima o poi, a una resa dei conti finale: o il “contenimento” dell’Iran avrà successo grazie agli accordi di Abramo, cioè a un asse strategico di alleanze tra Israele e gli stati arabi del Golfo, oltre che Egitto, Sudan e Giordania, con il potenziale accordo silenzioso della Turchia o la possibilità di una guerra totale diventerà concreta.
Il primo caso pretende lo smantellamento del “corridoio sciita”, cioè delle forze sostenute dall’Iran che permettono di far arrivare supporto militare iraniano fino ai confini di Israele – Hamas ed Hezbollah (mentre si salverebbe momentaneamente il regime di Assad in Siria, troppo importante per la Russia) – ma anche una soluzione quale che sia, probabilmente al ribasso, della questione palestinese.
Il secondo vedrebbe il diretto coinvolgimento degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali nel conflitto. E non potrà terminare che con la caduta del regime khomeinista (a meno che non si pensi che la Russia sia in grado di intervenire in suo aiuto). Il che potrebbe costituire un cambiamento radicale degli equilibri mondiali non del tutto sgradito da qualche parte della popolazione iraniana.
Di mezzo ci sono le elezioni americane, fra un mese esatto, che decideranno probabilmente degli avvenimenti futuri. In parte la guerra mediorientale potrebbe influenzarne l'esito: la comunità musulmana del Michigan (stato dove nel 2016 Hillary Clinton perse lo stato e la presidenza per 10mila voti) potrebbe voltare le spalle a Kamala Harris per il sostegno dell'amministrazione democratica a Israele, con il risultato di favorire un Donald Trump ben più deciso a farla finita con gli ayatollah.
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