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Israele e Palestina: l’ostinazione contro una pace possibile

Il discorso di Obama al Palazzo di Vetro dell’ONU sulla richiesta palestinese di riconoscimento come Stato indipendente ha indubbiamente lasciato l’amaro in bocca a molti, sconcertato altri e soddisfatto qualcuno. Sono fioccate invettive nel web come se alla Casa Bianca sedesse ancora il vecchio pistolero Bush.


Chissà cosa si aspettavano davvero i fautori dell’azzardo di Abu Mazen, ma rimandando tutto alla trattativa diretta fra palestinesi ed israeliani, il presidente americano ha fatto solo, probabilmente a malincuore, quello che la sua situazione reale (interna ed esterna) gli permetteva, anche se ha dato l’impressione di favorire uno status quo favorevole allo stato ebraico e non per quello arabo.

Che la trattativa diretta sia impossibile è naturalmente falso perché, curiosamente, i punti di contrasto che rendono così difficile una pacificazione concordata non sono poi così numerosi né insormontabili.

È vero che il ventaglio comprende posizioni come "l’entità sionista non ha diritto di esistere perché è il risultato di una colonizzazione europea" o, viceversa "dobbiamo espellere i palestinesi al di là del Giordano per poter costruire la Grande Israele" che sono le frasi tipiche di chi ha un rapporto con la realtà alterato dalla droga delle ideologie, dei nazionalismi o delle religioni.

Non voglio entrare nel merito di queste posizioni - penso che siano semplicemente deliranti - ma è certo che sono punti su cui effettivamente non c’è trattativa che tenga, i margini stanno a zero. Sono temi che pretendono o la drammatica distruzione di Israele o un’esodo dalle proporzioni così catastrofiche da non prendere nemmeno in considerazione.

 Pensiamo allora agli elementi di contrattazione pragmaticamente possibili: i confini, la questione di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi, la questione demografica.

Tutte faccende che hanno a che fare esclusivamente con la logica dei due Stati, ovviamente. Lo Stato unico, multietnico e multireligioso, è ipotesi morta e sepolta da quasi un secolo ormai.

La questione demografica è centrale. Israele ha sul tavolo, davanti agli occhi e scritti su un bel foglio di carta, tre aggettivi: ebraico, democratico e grande (cioè comprendente anche la Cisgiordania). Tutti e tre possono definire legittimamente lo Stato d'Israele, ma mai tutti e tre simultaneamente.

Israele può essere ebraico e grande, ma non democratico perché per affermare la sua essenza ebraica su territori ad ampia presenza araba dovrebbe impedire alla popolazione non ebraica di votare.

Può essere ebraico e democratico, ma dovrebbe allora abbandonare l’idea di incamerare i territori occupati (abitati appunto in prevalenza da arabi), per mantenere democraticamente la sua essenza ebraica.

Infine può essere grande e democratico e rinunciare perciò al carattere ebraico dello stato perché nel giro di pochi anni, stante la differenza di incremento demografico, la popolazione non ebraica diventerebbe più numerosa di quella ebraica e, con il voto sarebbe in grado di escludere dalle istituzioni l’identità di appartenenza culturale all’ebraismo.

 Tutto questo è ben noto agli analisti, agli israeliani ed anche ai palestinesi. E segna un punto a favore dei palestinesi perché Israele, per salvare democrazia ed ebraicità, dovrà per forza rinunciare alla "grandezza", cioè all’occupazione dei Territori. Prima o poi.

Salvare l’essenza ebraica dello Stato però preclude contemporaneamente anche l’altro aspetto che potrebbe minacciarla: la questione dei profughi. Cioè al diritto del ritorno dei palestinesi cacciati o fuggiti nel ’48 durante la prima guerra arabo-israeliana. Un ritorno in massa dei settecentomila palestinesi residenti all’interno di quello che è ormai territorio israeliano sarebbe già un bel problema, ma oggi si parla di tre-quattro milioni di persone tenendo conto di figli e nipoti. Su questo punto non c’è alcuna via d’uscita se non concordando una qualche forma simbolica di ricongiungimento familiare (e un bel po’ di rimborsi), ma rinunciando definitivamente al diritto al ritorno da parte palestinese.

Il problema dei confini può essere affrontato solo con estrema pragmaticità: pretendere che i trecentomila coloni ebrei sloggino dalla Cisgiordania, come avvenne nel 2005 da Gaza, è semplicemente impensabile. Per questo quando si parla di confini del '67 si intende sempre, implicitamente (a parte le fazioni più estreme che fanno finta di voler affrontare il problema), di confini modificabili con scambi reciproci di territori. Le colonie ebraiche più consistenti sarebbero inglobate nello stato israeliano e al nuovo stato di Palestina dovrebbero essere ceduti territori equivalenti in dimensione (ma le dimensioni ovviamente non sono tutto, bisogna valutare anche la qualità dei territori offerti).

Gerusalemme è un altro argomento scottante, questa volta per gli israeliani che hanno annesso unilateralmente la città dopo il conflitto del '67. Una specie di preda di guerra, insomma, e, nello stesso tempo, una sorta di ricatto politico da parte della destra ultrareligiosa. È evidente che non c’è un solo motivo al mondo (a parte appunto motivazioni bibliche vecchie di due-tremila anni) per cui Gerusalemme Est, prevalentemente araba, non debba essere abbandonata dagli israeliani e non possa diventare la capitale del nuovo Stato di Palestina.

Profughi, confini, Gerusalemme. Abbiamo affrontato e risolto tre dei punti nevralgici più spinosi della questione israelo-palestinese con un due a uno per Israele, comunque.

Resta solo da mettere la valle del Giordano (cioè il lungo confine tra la West Bank e la Giordania) sotto il controllo di una forza multinazionale di pace (sloggiando quindi l’esercito di Israele, così la Palestina pareggia) che impedisca l’ingresso di armi pesanti in Palestina (dalla Cisgiordania si possono colpire tutte le maggiori città israeliane, quindi sarà meglio prevenire che dare modo agli israeliani di reprimere di nuovo a modo loro). Non resta che smettere di sparare missili da Gaza e allentare la pressione e il blocco navale.

Poi confidare in un lento, progressivo, gradevole abbassarsi della tensione. Che porterà aiuti finanziari dall’estero, crescita economica, investimenti anche in cultura, arte, sanità. Futuro per le giovani generazioni.

Bello, no ? Abbiamo risolto tutto, finalmente. Era facile e qualsiasi testa pensante avrebbe potuto arrivarci con un po’ di buon senso, un sano pragmatismo e la capacità di separarsi da un passato, doloroso, ma ormai – appunto – “passato”.

In verità se andate a leggervi il testo degli Accordi (ufficiosi) di Ginevra del 2003 scoprirete che tutto questo è stato davvero raggiunto, e controfirmato, dai negoziatori israeliani e palestinesi. L’avevano fatto, avevano trovato il bandolo della matassa. La pace era lì, ad un passo. Con entrambi i governi a guardare sospettosi e un (bel) po' ostili. Poi l’hanno sottoposto a referendum ed entrambe le comunità hanno rifiutato l’accordo. E il conflitto è continuato.

Quando si dice la cocciutaggine.

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