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Io li seguii e andai in guerra con i Čiriklé: il lungo viaggio dei romaní (Parte II)

Qui la prima parte

In definitiva, il nomadismo è oggi una modalità di vita del tutto eccezionale per il popolo romaní. Una recente indagine condotta dal Senato della Repubblica (Rapporto conclusivo dell’indagine sulla condizione di rom, sinti e caminanti in Italia, febbraio 2011) rivela che solo l’1 o il 2 per cento dei circa 140.000 romaní residenti in italia mantiene modi di vita nomadi: si tratta di un paio di migliaia di persone, quasi tutti giostrai di etnia sinta e nazionalità italiana. Ciononostante, i romaní di qualsiasi provenienza vengono confinati in “campi nomadi” ai margini delle metropoli: accampamenti pensati sul modello delle aree temporanee di sosta necessarie agli operatori dei circhi e dei luna park ma che, se abitati da persone che nomadi non lo sono mai state, o non lo sono più da lunga pezza, si trasformano in baraccopoli, in ghetti degradati che inevitabilmente producono emarginazione sociale e microcriminalità. Emarginazione e microcriminalità che suscitano allarme sociale, spesso ingigantito demagogicamente a fini elettorali, al quale si risponde attuando sgomberi forzati che ottengono l’unico risultato di spostare e cronicizzare il problema, spazzando via quel poco di integrazione che faticosamente si era creata.

Il pregiudizio del nomadismo si inserisce in un quadro secolare di politiche di emarginazione e discriminazione del popolo romaní. Tali politiche sono state assimilate così profondamente dalla popolazione occidentale che ancor oggi, nel senso comune, i rom e i sinti sono considerati “stranieri” sebbene siano nostri concittadini da oltre mezzo millennio e abbiano pertanto preso parte a tutte le fasi storiche dell’Europa moderna: guerre di conquista, guerre d’indipendenza, rivoluzioni, controrivoluzioni. Nel secondo decennio del Duemila, moltissimi fra noi sono ancora disposti a dar credito ad assurde superstizioni medievali sugli zingari: di loro si racconta che rubino i bambini, che parlino fra loro gerghi segreti, che ritengano il lavoro un disonore, che usino arcani ideogrammi per marcare le case da derubare, che nascondano favolosi tesori in fantomatiche regge, che viaggino sempre e solo su auto di grossa cilindrata dell’ultimo modello. Portare controesempi, magari ben noti, di zingari che fanno una vita normale, lavorando come operai, ragionieri, attori, imprenditori, professori, si scontra regolarmente con una barriera di incredulità, che spesso sfocia nell’insensata accusa di “buonismo”. Tale bagaglio di pregiudizi razzisti ha radici antiche, e somiglia molto ad analoghe credenze che nel corso dei secoli hanno riguardato altre minoranze etniche, in particolare gli ebrei. Ma mentre l’antisemitismo ha subito una battuta d’arresto dopo che si è conosciuta l’agghiacciante realtà dei campi di sterminio nazisti, per i romaní nemmeno questo è bastato. Mentre la Shoah, l’olocausto ebraico, viene giustamente insegnata nelle scuole e ricordata pubblicamente ogni anno, il Porrajmós, l’olocausto zingaro, è sconosciuto ai più. Eppure, ad Auschwitz fu assassinato oltre mezzo milione di rom e sinti, considerati, al pari degli ebrei, una razza inferiore da estirpare.

In una forma o nell’altra, le persecuzioni contro i romaní sono proseguite in tutta Europa anche nel dopoguerra. In diversi paesi, fra cui le civilissime Svezia e Svizzera, si è protratta per decenni la pratica, di matrice nazista, della sterilizzazione forzata delle donne romaní, spesso attuata a loro insaputa in occasione di parti cesarei; in Slovacchia e nella Repubblica Ceca, tale pratica è continuata fino agli anni ’90, e un caso è stato documentato addirittura nel 2007. Nella Repubblica Ceca, in Slovacchia e in Grecia i bambini rom sono spesso segregati in scuole speciali per alunni con disabilità mentale, nelle quali si impartiscono programmi scolastici ridotti. Negli ultimi cinque anni in molti paesi europei (Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) si sono registrati centinaia di attacchi violenti contro le comunità rom, con sparatorie, accoltellamenti e lancio di bombe molotov. Tali attacchi, perpetrati da gruppi dell’estrema destra, ma anche, soprattutto in Italia, da frange della criminalità organizzata, hanno causato morti, feriti e ingenti danni alle proprietà delle comunità rom. Proprio mentre scrivo questo articolo, il tribunale di Budapest ha condannato quattro estremisti di destra a pene detentive che vanno dai 13 anni all’ergastolo per gli omicidi a sfondo razziale di sei rom, fra cui un bambino, avvenuti fra il 2008 e il 2009. Purtroppo, non sempre gli attacchi razzisti contro i rom vengono sanzionati con altrettanta fermezza; di certo ciò non è accaduto nel caso dei pogrom verificatisi pochi anni fa a Napoli e a Torino. Ma la forma di discriminazione più grave nei confronti dei cittadini romaní resta quella della violazione dei loro diritti abitativi, dalla quale spesso deriva l’impossibilità di godere di altri diritti fondamentali quali l’istruzione, il lavoro, la proprietà, la cittadinanza. All’assenza di politiche di housing sociale, i rom rispondono nell’unico modo possibile: improvvisando insediamenti abitativi informali e abusivi. In molti paesi, quali Romania, Bulgaria, Grecia, Albania, Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, tali insediamenti sono oggetto di sgomberi forzati da parte delle autorità, cioè di sgomberi attuati in violazione delle normative nazionali e internazionali sugli sfratti, spesso senza che alle popolazioni sgomberate venga offerta alcuna alternativa abitativa.

La situazione abitativa dei romaní è particolarmente grave in Italia, il paese che nel dopoguerra inventò il concetto di “campo nomadi”, sulla base di un equivoco storico che estende arbitrariamente a tutto il popolo romaní le abitudini della piccola minoranza sinta tradizionalmente presente nell’Italia settentrionale. Nel maggio del 2008, basandosi sulla legge 225 del 1992, che regola gli interventi di protezione civile nei casi di calamità naturali quali terremoti o alluvioni, il governo di Silvio Berlusconi (con Roberto Maroni ministro dell’interno) varò un provvedimento chiamato Emergenza nomadi. In base a tale provvedimento fu decretato lo stato d’emergenza in cinque regioni italiane (Lombardia, Campania, Lazio, Piemonte e Veneto), in ognuna delle quali il Governo nominò un “commissario delegato” dotato di poteri speciali, anche in deroga alle leggi ordinarie, incaricato di affrontare una «situazione di grave allarme sociale, con possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le popolazioni locali», secondo le parole dello stesso Consiglio dei Ministri. La “calamità” da affrontare erano le poche decine di migliaia di persone di etnia romaní che vivono nei campi nomadi sparsi nelle periferie delle città italiane, e la soluzione prospettata al problema era cacciar via queste persone senza offrire loro alcuna alternativa abitativa. Oppure, come nel caso di Roma, trasferendoli in nuovi campi del tutto invivibili e decisamente sottodimensionati, come quello di La Barbuta, stretto fra il Grande Raccordo Anulare e la pista dell’aeroporto di Ciampino, recintato, video-sorvegliato, lontanissimo dalla città e dai servizi più basilari quali scuole, trasporti, negozi, servizi medici.

Amnesty International ha criticato duramente questa normativa in diversi documenti, fra cui un dettagliato rapporto sulla situazione di Roma (La risposta sbagliata Il “Piano nomadi” viola il diritto all’alloggio dei rom a Roma, gennaio 2010), a cui ne è seguito un altro sulla situazione di Milano (“Tolleranza zero verso i rom” Sgomberi forzati e discriminazione contro i rom a Milano, novembre 2011). A pochi giorni di distanza dall’uscita di questo secondo rapporto, il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso di una famiglia di rom bosniaci, decretò che lo stato d’emergenza era immotivato e che tutti gli atti emessi nell’ambito dell’Emergenza nomadi erano illegittimi e dunque decaduti, ivi incluso quello forse più discusso: la schedatura su base etnica dei rom. Nel febbraio 2012, il governo tecnico di Mario Monti presentò alla Commissione europea la sua nuova Strategia nazionale d’inclusione dei rom, dei sinti e dei caminanti, che, almeno sulla carta, segna un deciso cambio di direzione, puntando all’inclusione sociale ed economica dei cittadini romaní; lo stesso governo ha però operato pesanti tagli al personale e al budget degli enti preposti a coordinare tale strategia. Nel suo un terzo rapporto sulla situazione dei diritti dei rom in Italia (Ai margini Sgomberi forzati e segregazione dei rom in Italia, settembre 2012), Amnesty International denuncia che, in spregio alla sentenza del Consiglio di Stato, molti dei provvedimenti e delle norme decisi nell’ambito dell’Emergenza nomadi continuavano ad essere applicati. Fra tali atti rientra anche il Piano nomadi: l’ordinanza attuativa dell’Emergenza nomadi predisposta dal Comune di Roma. L’Associazione 21 Luglio ha riferito in un suo documento (Rapporto divulgativo sul piano degli sgomberi del comune di Roma, agosto 2012) che dal varo del Piano nomadi, nel novembre 2009, all’agosto del 2012 nella sola Capitale erano stati eseguiti ben 450 sgomberi (di cui 70 dopo la sentenza del consiglio di Stato), per una spesa totale di 6,75 milioni di euro: oltre 14.000 euro per ognuna delle 480 famiglie coinvolte, dieci volte di più di quanto il Comune abbia speso nello stesso periodo per i programmi di inclusione lavorativa dei rom. Secondo le dichiarazioni dello stesso sindaco Gianni Alemanno, il numero dei campi interessati dal Piano nomadi era meno di 200, il che fa dedurre che diverse comunità siano state sgomberate più volte: un paradossale e costosissimo giro turistico dell’Urbe.

 

Marco Cimarosti per “Segnali di Fumo – il magazine dei diritti umani”

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