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Internet non è un soggetto

Non solo, come scrive Sherry Turkle in Insieme ma soli, «ci aspettiamo di più dalla tecnologia e di meno gli uni dagli altri». Ci aspettiamo talmente tanto dalla tecnologia che, quando tradisca le nostre aspettative, siamo pronti ad attribuirle la colpa di qualunque effetto perverso si sviluppi da questo terribile malinteso.

In principio, si potrebbe dire, era la domanda di Nicholas CarrGoogle ci rende stupidi? Una formula scarsamente scientifica, ma fortunata. The Atlantic, che aveva ospitato la provocazione di Carr, l’ha ribadita nel pezzo di copertina di maggio 2012: Facebook ci sta rendendo solitari? Ora tocca a Newsweek, con una lungo e apocalittico resoconto intitolato Internet ci rende pazzi?  

L’assunto di fondo che lega tutte queste analisi è chiaro: è Internet che sta rimodellando la nostra architettura neurale; Internet che ha fatto sì che «non siamo mai stati così separati l’uno dall’altro»; ancora e sempre Internet che «incoraggia – o addirittura promuove – la follia». Così che fa sorridere il tentativo di Tony Dokoupil, autore del pezzo su Newsweek, di sottrarsi a una critica di questo tipo con una semplice affermazione di principio: «Internet ci rende pazzi? Non la tecnologia in sé». Come dimenticandosi di avere appena finito di sostenere che la rete non è un mezzo qualunque, ma «un ambiente mentale tutto nuovo, uno stato di natura digitale dove la mente diventa un pannello di controllo che rotea, e pochi ne usciranno indenni». Parole espresse più chiaramente subito dopo dallo psichiatra di Stanford, Elias Aboujaoude: «C’è proprio qualcosa nel mezzo che crea dipendenza». Ma se il mezzo non è neutro, significa che può essere responsabile. E che noi, gli esseri senzienti che l’hanno creato e lo controllano, ne siamo le vittime. Ora, che ogni mezzo di comunicazione abbia delle proprie caratteristiche è indubbio. E se gli effetti collaterali dell’iperconnessione sono oggetto di dibattito nella comunità accademica come, in maniera crescente, tra i comuni cittadini, non può essere solo per effetto del sensazionalismo mediatico. Qualcosa corre sotto la nostra pelle, e ci inquieta. Ma attribuire una soggettività a Internet, e caricarla del peso di tutte le frustrazioni contemporanee, non dice nulla del perché così tante persone preferiscano il multitasking all’approfondimento o una chat su Facebook a una passeggiata.

Certo, la tecnologia le induce in tentazione, ma sono le persone ad assecondarle. Non solo. Reificare Internet rende più semplice essere tecno-scettici. Scriviamo troppi commenti superficiali? Colpa di Twitter, che ci costringe a esperimerci in 140 caratteri. Non siamo attenti alla nostra privacy? E’ perché le condizioni di utilizzo dei nostri dati sono troppo complesse e cangianti. E via dicendo, fino alle conseguenze paradossali che si possono tirare da ipotesi come quelle recentemente ripetute da Andrew Keen sulla CNN: siamo assassini? Colpa di Call of Duty. Con queste premesse, sarebbe da irresponsabili non assumere un atteggiamento di forte perplessità nei confronti dei nuovi media. Il punto è che sono premesse errate, perché anche quando attribuiamo alla tecnologia ciò che dovremmo aspettarci dagli esseri umani – intelligenza, amicizia, equilibrio psichico – sono sempre quegli stessi esseri umani a decidere delle loro sorti attraverso la tecnologia. Non c’è nulla di necessariamente deviante nel mezzo Internet: semmai c’è la debolezza di alcune persone, che si riversa su Internet come fosse una terapia, e non un mezzo per portare a compimento degli obiettivi. Se non ci fosse, con ogni probabilità la riverserebbero altrove – non a caso i risultati scientifici parlano di correlazioni, non di cause. Poi c’è un secondo pensiero, anche più preoccupante: che non si capisce che cosa far seguire a quelle forme di tecno-scetticismo.

Ammettiamo Internet ci renda più stupidi, solitari e disturbati. Significa che dovremmo consentirne l’utilizzo solamente per poche ore al giorno? Che certe prassi digitali dovrebbero essere vietate? Se non è questione di responsabilità individuale, ma di qualcosa di intrinseco a quelle tecnologie, non si può rispondere dicendo che basta che le persone stiano più attente nell’utilizzo che ne fanno: servono regole, ferree, per fare in modo che quegli effetti necessariamente nefasti siano minimizzati. E’ una prospettiva terribile, ed è alimentata da ogni articolo che assuma la forma di quelli recentemente pubblicati da The Atlantic e Newsweek. Se invece ci concentrassimo sulle responsabilità umane, e sul fatto che mentre su certe persone l’utilizzo anche intensivo di Internet ha effetti nocivi su altre non ne ha affatto, allora potremmo iniziare una conversazione – questa sì – necessaria su come rapportarci a una tecnologia sempre più invasiva nelle nostre vite. E, per esempio, discutere su come remunerare maggiormente quei lavori che, per la loro natura, costringano a farne un uso intensivo. C’è tutto un mondo da scoprire una volta che si liberi la riflessione sulle conseguenze sociali e antropologiche della tecnologia dalla retorica deterministica che impone che Internet sia un soggetto agente. Ed è un mondo fatte di carne e ossa, prima che di bit e fibra ottica.

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