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Inflazione, redditi e valore della moneta

Il mio mestiere è quello di fisico teorico, e mi interesso di tecnologia per applicazioni sanitarie, ma per il mio background di impegno in gruppi di studio sociale ed economico ho una buona conoscenza anche di questi campi, per affrontare i quali esiste una loro propria scienza.

In questo primo contributo cercheremo di vedere insieme cosa significhi inflazione non in astratto, come definizione ISTAT per capirci, ma negli effetti che ha sulla vita delle persone.

Cercheremo anche quindi di capire se esistono e quali siano gli strumenti che l’amministrazione ed il mondo finanziario in genere ha per governare, qualora naturalmente voglia farlo, questo fenomeno.

Credo che tutti sappiamo che la definizione formale di inflazione, quella sulla base della quale è calcolato il dato statistico che in genere viene riportato dai mezzi di informazione, si basa sulla definizione di un paniere di beni che riflette quanto una famiglia media potrebbe comprare in un mese.

L’aumento percentuale di prezzo di tale paniere è chiamato inflazione, correttamente dovremmo chiamarlo inflazione media stimata.

Il paniere in esame aumenta di prezzo poiché il valore della moneta si svaluta nel tempo, ma non tutti i beni compresi nel paniere aumentano nello stesso modo, e non in tutte le condizioni economiche l’aumento è lo stesso.

Infatti ci sono beni, quali il pane, la pasta, l’elettricità, l’acqua, che sono considerati da tutti, anche dalle persone povere, beni di base, ai quali non si può rinunciare se non a prezzo di un enorme diminuzione del livello di vita.

Il volume di tali beni che viene acquistato da una famiglia dipende molto poco dallo stato di salute economica della famiglia: se la famiglia si impoverisce smette di andare al cinema, non va più in vacanza, compra vestiti meno costosi, prima di comprare meno pane o rinunciare all’energia elettrica.

Poiché la domanda di tali beni poco dipende dalla situazione generale e dal loro prezzo, in stato di crisi il prezzo di tali beni aumenta velocemente: chi li produce cerca così di smorzare l’effetto della crisi su di sé, sapendo che quanto vende non varierà in modo sensibile all’aumentare dei prezzi.

Questi beni sono chiamati dagli economisti beni a domanda rigida, e costituiscono un riferimento quasi assoluto di valore in quanto il loro valore percepito da chi li compra è indipendente dal sua stato economico.

Idealmente, se si individuasse un bene a domanda perfettamente rigida, cioè il cui volume venduto fosse esattamente indipendente da tutte le altre variabili economiche, il pane va vicino a questo ideale, si potrebbe dire che la moneta ha un valore quantificabile dalla quantità di tale bene che una unità monetaria può comprare.

In altre parole, il valore di un euro a Milano è ben rappresentato dalla quantità di pane di base (la michetta ammesso che esso sia ancora il pane più economico che si trova a Milano) che si può comprare con un euro.

Capiamo quindi che, dato che in tempo di crisi il prezzo del pane aumenta velocemente, e dato che esso determina il valore reale della moneta, la moneta perde valore altrettanto velocemente.

Beni invece come una settimana in vacanza a Riccione, la BMW serie 3 2.0d, si comportano molto diversamente.

Poiché sono beni a cui si può rinunciare, anzi sono tra i primi beni a cui si rinuncia se si deve ridurre il livello di vita, chi li vende non può alzare troppo i prezzi, pena la riduzione drastica del volume del venduto. Tali beni si dicono beni a domanda flessibile.

Ora, se consideriamo il paniere reale che caratterizza una famiglia più povera, ci accorgiamo facilmente che esso è fatto praticamente solo da beni a domanda fissa, mentre all’aumentare del benessere appaiono nel paniere sempre più beni a domanda flessibile fino a che, nel paniere delle famiglie benestanti, compaiono i beni di lusso, quelli la cui domanda ha meccanismi di sviluppo diversi, legati più allo stile di gestione del patrimonio da parte di chi è ricco.

Così si intravede uno dei meccanismi più tremendi delle crisi economiche: l’inflazione non è uguale per tutti: è più forte per chi è più povero poiché il suo paniere è più sensibile al calo di valore della moneta caratterizzato dall’aumento di prezzo dei beni a domanda rigida.

In qualche modo, attraverso il meccanismo dell’inflazione, più si è poveri e più ci si impoverisce; un semplice modello, che non è però molto lontano dal reale, che lega la flessibilità della domanda al prodotto tra il costo ed il volume venduto di un bene (più costa e meno se ne vende più il bene è di lusso e la sua domanda è flessibile) ci dice che se una famiglia che guadagna in Italia 100000 euro lordi annui percepisce una inflazione del 1.8%, una famiglia che guadagna 15000 euro lordi l’anno percepisce una inflazione del 4.5%: la prima è un aumento di spesa sopportabile, la seconda un vero disastro economico.

Ci potremmo chiedere se, in assenza di reddito sufficiente, aumentare il reddito individuale stampando moneta e quindi ripartendo tra i cittadini una quantità maggiore di monete possa migliorare la situazione.

Il modo in cui abbiamo definito il valore della moneta ci fa subito vedere che tale misura non funziona. Se consideriamo l’ammontare totale della moneta che è in circolazione, il suo valore totale è, in prima approssimazione fisso (si tratta di quanto pane si può comprare con la ricchezza che si produce). Se aumento il numero di euro che metto in circolazione, sempre in prima approssimazione, il valore del singolo euro diminuisce di conseguenza e non ho cambiato nulla.

In realtà, non avrei cambiato nulla se il paese di cui parlo, l’Italia in questo caso, fosse isolato al mondo, ma non è così.

L’Europa, che crea l’euro e lo usa per gli scambi interni, vende euro anche all’estero per comprare le merci che non produce ma importa.

Nello stesso modo vende merci all’estero importando moneta estera.

Se il singolo euro scende di valore a causa del fatto che se ne stampano di più, chi importa in Europa vorrà più euro per le proprie merci, e poiché accumulare euro diverrà una cosa rischiosa (oggi valgono un certo valore, ma domani chissà, visto che non ho controllo su quanti se ne stamperanno), per tutelarsi aumenterà i prezzi molto di più di quanto aumentano i prezzi interni e tenderà a dar via gli euro il prima possibile.

Le merci di importazione quindi aumenteranno di valore molto più velocemente della diminuzione di valore interna della moneta, e la situazione, che sarebbe restata invariata in un sistema isolato, in realtà peggiora rapidamente.

E non vale ad arginare questo fenomeno il fatto che le esportazioni sono più semplici, poiché il fatto che l’euro ha un valore più basso fa percepire i beni prodotti in Europa come meno costosi sui mercati esteri, poiché in un sistema in crisi la produzione tende a contrarsi (in parte anche per il diminuire del valore interno della moneta) e così si contraggono naturalmente anche le esportazioni.

Stampare moneta quindi non è una soluzione.

E’ importante sottolineare che in tutto questo ragionamento non abbiamo affatto tenuto conto né del sistema finanziario, né delle politiche delle banche, né della speculazione internazionale.

Questi fattori possono aggravare le cose, ma non sono la causa prima del fatto che stampare moneta non risolve il problema inflazionistico, anche nell’antica Roma, dove queste cose non esistevano, era vero lo stesso.

Il Primo che lo capì fu l’imperatore Vespasiano, che infatti smise di stampare sesterzi, come sistematicamente faceva Nerone per pagare i debiti della corte imperiale, e risanò le finanze dell’impero con una politica di riduzione di costi ed aumento del prelievo fiscale.

E la borsa, le banche, gli speculatori finanziari ed i bond non esistevano ancora.

Cosa si può fare allora per limitare l’impatto della crisi, dato che non la si può evitare del tutto come si preferirebbe senz’altro?

Intanto si può notare che in tempo di crisi le aziende in genere sono in perdita, o in pareggio le migliori, poche sono le aziende che guadagnano.

La leva fiscale sulle aziende quindi, dato che le tasse le aziende le pagano sull’utile, di fatto non è efficace. L’impatto delle tasse sulle aziende in tempo di crisi è minimo e non è quello che bisogna guardare.

Riguardo le tasse sulle persone fisiche, parlando di tasse sul reddito, si deve partire dal fatto che in ogni paese civile l’imposizione diretta aumenta con il reddito secondo una curva che è fortemente diversa da paese a paese.

Di per se aumentare o diminuire le tasse è solo uno slogan, ha poco senso. Si tratta di gestire una regola che mi dice, in base al reddito che ho, quante tasse pago.

Potrei aumentarle in una certa fascia di reddito e diminuirle in un’altra, potrei far crescere più o meno velocemente la curva, addirittura, come in California, potrei decidere che al di sopra di un certo reddito (molto alto in realtà), l’imposizione percentuale addirittura diminuisce.

Poiché un ragionevole obiettivo è contrastare l’aumento dell’inflazione che colpisce maggiormente le fasce più povere, si potrebbe pensare che diminuire le tasse ai redditi bassi, mantenerle stabili ai redditi medi ed aumentarle ai redditi alti sia una buona politica per l’imposizione diretta.

Nella realtà economica di un paese complesso le cose sono meno semplici, l’impatto di una politica fiscale va confrontato anche con i bisogni di cassa dello stato, con la conseguente dinamica dell’imposizione indiretta (accisa sui carburanti, canone televisivo etc..) che di per se non dipende dal reddito ma da altri fattori e con molti altri aspetti.

Dal semplice ragionamento che abbiamo fatto però dovrebbe risultare chiaro che abbassare o alzare in modo assoluto l’imposizione diretta (per esempio aumentando o diminuendo proporzionalmente tutte le aliquote) non è una misura efficace in tempo di crisi.

E per seguire la politica efficace già intuita ed attuata da Vespasiano nell’anno 72 dopo Cristo, bisogna ridurre le spese dello stato in modo che esso abbia risorse per dare impiego o favorire i privati che lo danno, diminuendo la disoccupazione e favorendo la ridistribuzione del reddito.

Non che questo in una società evoluta come la nostra sia facile, dato l’alto stato di benessere e di aspettative che abbiamo rispetto ai servizi erogati dallo stato. Se però ci sono modi per diminuire le spese a parità di servizio erogato, questi vanno per certo perseguiti.

A questo punto verranno a tutti in mente alcuni dei punti scottanti del dibattito politico attuale:

· Il recupero dell’evasione;

· Le spese per la tutela del posto di lavoro;

· Le spese di assistenza sanitaria;

· le spese della politica;

· L’introduzione più marcata dell’impresa privata nella gestione di servizi di interesse pubblico;

e così via.

In molti di questi campi non esiste una ricetta assoluta, una strategia che sia matematicamente vincente, e molte cose sono legate alla visione della società che ha chi deve prendere le decisioni.

Esistono però dati oggettivi e dinamiche sociali ineludibili di cui si deve per certo tenere conto, quale che siano le decisioni che si vogliono prendere. Nei miei futuri interventi, per quanto posso e sono capace, cercherò di affrontare questo problemi con lo stesso stile con cui ho cercato di affrontare in questo breve intervento il problema dell’inflazione. Facendo analisi e lasciando ad ognuno trarre, in base alla propria visione del mondo, le opportune conseguenze.

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