Inflazione, una iniqua spending review
Se siete sempre convinti che l'aumento di inflazione aiuti un paese ad elevato indebitamento come il nostro, ecco alcuni argomenti per farvi cambiare idea.
Il Documento di Economia e Finanza 2024 illustra plasticamente l’impatto della perturbazione inflazionistica sulle voci di spesa pubblica. Nel senso di un colpo d’ascia sulla spesa reale di quasi tutti i capitoli, con poche ma significative eccezioni.
Osservando il periodo 2021-2024 si scopre, come evidenziato da un articolo di Gianni Trovati sul Sole, che la spesa corrente primaria, cioè al netto degli interessi, è cresciuta di 93,7 miliardi nominali, con un incremento di 11,5 per cento, ma si è ridotta in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, del 3,7 per cento. Per conseguire una crescita zero in termini reali, detto in soldoni, servirebbero altri 33 miliardi di euro.
SPESA FALCIDIATA, CON ECCEZIONI
La spesa sanitaria reale è stata falcidiata nel triennio di 6,2 per cento, cioè necessiterebbe di altri 8,6 miliardi per restare invariata, e quella per i dipendenti pubblici perde il 4 per cento. I consumi intermedi della pubblica amministrazione, la grande voce che doveva rappresentare la prateria della spending review, scende nel triennio del 3,4 per cento reale.
Quali sono le voci di spesa pubblica cresciute più dell’inflazione, quindi? Sono tre: quella per investimenti, che verosimilmente ha beneficiato della partenza degli esborsi del PNRR; quella per pensioni, cresciuta nel triennio in termini reali di 1,8 per cento; e quella per interessi passivi, del 15 per cento nel triennio.
Quindi possiamo dire che l’inflazione ha operato una crudele spending review al posto della politica. Questi dati mostrano cosa potrebbe attendere un paese come l’Italia, a crescita esangue e alto debito, in presenza di pressioni inflazionistiche sostenute: in pratica, la distruzione di quanto resta del welfare, la cui spesa verrebbe progressivamente vampirizzata da quella per interessi. Lo so, sono concetti arcinoti ma è sempre utile ripeterlo.
Non solo: a un certo punto, anche per recuperare risorse fiscali, il governo pro tempore si troverà costretto a sforbiciare in termini reali anche l'”isola felice” della spesa pensionistica. Il governo Meloni si è già incamminato su questa via, sia attraverso tagli all’indicizzazione che “scovando” extra rendimenti pensionistici prodotti da vecchi e assai generosi regimi. Un caro saluto ai pasdaran di Quota 41: se mai arriverà, produrrà rendite pensionistiche prossime a una ciotola di riso. Per forza di cose.
L’ALTRA TASSA DA INFLAZIONE
Ma la pressione inflazionistica aiuta a tenere i conti in equilibrio attraverso il fenomeno del fiscal drag, cioè trascinando il gettito nominale per effetto, tra le altre cose, del progressivo spostamento dei contribuenti verso scaglioni d’imposta superiori. Per avere un’idea, è possibile guardare quest’altra tabella, sempre tratta dal Def, che mostra un aumento del gettito reale dalle imposte dirette. Categoria a cui contribuisce l’Irpef, e tutti quelli che la pagano senza poter contare su evasione o alleggerimenti ideati dal governo pro tempore per chi sta sotto la soglia del benessere, posta come noto a 35 mila euro lordi annui.
Per meglio comprendere la portata del drenaggio fiscale nell’equilibrio dei conti pubblici, consideriamo questo dato, segnalato giorni addietro dagli economisti Marco Leonardi e Leonzio Rizzo:
A fronte di un’inflazione nel 2023 del 5,5 per cento e di una crescita dei redditi da lavoro dipendente che è meno dell’inflazione (4,4 per cento), il gettito Irpef (Mef) da lavoro dipendente è aumentato dell’8,5 per cento.
Quindi, riepilogando: l’elevata inflazione ha causato pesanti tagli in termini reali di spese fondamentali quali la sanità mentre alcuni soggetti Irpef, tipicamente i lavoratori dipendenti, sono risultati cornuti e mazziati, subendo in media una perdita del potere d’acquisto e pure un aumento del prelievo fiscale. Tutti tranne i “fortunati” che si trovano sotto la nota soglia italiana di agiatezza (i sopracitati 35 mila lordi annui), a cui con la decontribuzione è stato restituito parte del drenaggio fiscale col quale l’inflazione contribuisce alle entrate.
INFLAZIONE PRO DEBITORI? PENSATECI MEGLIO
Ultima considerazione, sempre relativa al modo in cui questo paese percepisce il proprio rapporto con l’inflazione. Provo a ripeterlo, non ho grandi speranze ma tentiamo lo stesso: contrariamente alla vulgata, l’inflazione crescente non aiuta un grande debitore, cioè un soggetto che è costretto a emettere continuamente nuovo debito, per rinnovare quello che giunge a scadenza e coprire il nuovo deficit. Al contrario, un’inflazione in crescita gonfia il tasso a cui il grande debitore può rifinanziarsi sul mercato, e quindi lo incapretta. Segnatevelo. L’inflazione aiuterebbe un debitore che non dovesse rinnovare il proprio debito né emetterne di nuovo. Voi vedete una situazione del genere, per caso?
E lo scorso anno, quando l’indebitamento è sceso in presenza di alta inflazione?, chiederanno i più vispi ma meno attenti tra i miei lettori. No, lo scorso anno abbiamo avuto una spinta al deflatore del Pil ma grazie alla disinflazione energetica e ai relativi prezzi all’importazione. Se continua così, quest’anno rischiamo di avere l’opposto: cioè un rialzo dei prezzi dell’energia che si traduce, controintuitivamente, in una riduzione del deflatore del Pil, rischiando quindi di gonfiare il rapporto debito-Pil. Occhio ai dettagli. E alle perniciose leggende italiane.
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