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Indignazione: ancora un grandissimo libro di Philiph Roth

Alessandro Piperno, qualche tempo fa, ha scriito un articolo per commentare l’uscita in Italia dell’ultimo romanzo di Philiph Roth, “L’indignazione”.

Cosa diceva Piperno? Che, appena uscito il romanzo di Roth, lui era stato tentato di non comprarlo.

Ci troverò le solite cose, pensava: sensi di colpa, donne, sesso, il solito armamentario di cultura ebraica, il rimpianto del tempo passato, la Newark degli anni 50 ecc.

Insomma tutte le cose che negli ultimi 50 anni hanno deliziato (o annoiato,o scandalizzato, a seconda dei casi) i lettori di Roth.

Poi, però, Piperno, ha ceduto alla tentazione.

E’ uscito di casa, è andato in libreria, ha comprato il libro, è ha raggiunto un caffè tranquillo, ha ordinato qualcosa, ha liberato il romanzo dal cellophane e ha iniziato a leggere.

Comprendendo subito di avere speso bene i suoi soldi.

La stessa cosa è capitata a me.

I temi, d’accordo, sono sempre gli stessi (d’altronde di cosa dovrebbe parlare un autore se non delle cose che conosce meglio?).

Ma quale freschezza di racconto, che humor, che forza!

Piuttosto che raccontarvi il libro, però, preferisco cercare di farvene assaggiare un tassello.

Siete pronti?

 

Diciamo subito che il protagonista è Marcus Messner, un giovane di Newark (è la città natale di Roth, impossibile per lui non “tornare” lì in quasi tutte le sue storie).

 

Marcus è figlio di un macellaio kosher. Finite le superiori, nel 1951, secondo anno della guerra di Corea, decide di iscriversi all’università. In città ce ne è una che a lui sembra perfettamente idonea allo scopo.

Non ha la fissa per frequentare un college di prestigio:

Un college era un college:frequentarne uno e uscirne laureati era l’unica cosa che contava per una famiglia poco di mondo come la mia”.

Ma, passato il primo anno, Marcus decide di andare a studiare lontano da casa.

E perché lo fa? Per sottrarsi all’apprensione del padre, che, pur essendo orgogliossimo di lui e della sua serietà negli studi, ha finito per mettersi in testa che il suo unico figlio corre il rischio di cadere vittima di cattive compagnie e cattive abitudini.

Ma ecco il “tassello” promesso:

[...] Mio padre entrò in casa dalla porta di servizio, ancora carico di agitazione, puzzolente di fumo di sigaretta, e adesso arrabbiato non perchè mi aveva trovato in una sala da biliardo, ma perchè NON mi ci aveva trovato.

Non gli sarebbe venuto in mente di scendere in centro a cercarmi alla biblioteca pubblica, e questo perchè in biblioteca nessuno ti spappola la testa con una stecca da biliardo accusandoti di averlo truffato, nessuno ti accoltella mentre sei seduto a leggere il capitolo assegnato di “Storia della decadenza dell’impero romano” di Gibbon, come avevo fatto io quella sera.

- Dunque eccoti qui


- Già. Strano, no? A casa. Dormo qui. Vivo qui. Sono tuo figlio, ricordi?

- Davvero? Ti ho cercato dappertutto

- Papà, io non sono quel terribile scapestrato giocatore di biliardo che risponde al nome di Eddie Pearlgreen.

- Lo so che non sei come lui, per l’amor di Dio. lo so benissimo quanto sono fortunato con il mio ragazzo.

- Allora cos’è tutta questa storia, papà?

- E’ la vita, dove i minimi passi falsi possono avere conseguenze tragiche

- Oh, Cristo Santo, parli come un biscotto della fortuna

- Ah sì? Ah si? E’ questo l’effetto che faccio quando parlo a mio figllio del futuro che ha davanti, un futuro che una qualunque minima cosa potrebbe distruggere?

- Oh, al diavolo- gridai e corsi fuori casa, in cerca di un’auto da rubare per andare a giocare al biliardo e magari beccarmi anche lo scolo, già che c’ero.”

Piaciuto il “tassello”? Vi andrà poi di assaggiare il resto del cocomero?

Aggiungo solo una piccola cosa.

Quando uno scrittore è universale, racconta le cose che conosce meglio, come tutti, ma quelli che lo leggono si rispecchiano in quello che lui racconta anche se provengono da esperienze diversissime dalle sue.

Mi spiego meglio: anch’io, come Marcus, ero uno studente modello. Anch’io, spesso stavo fuori casa tutto il giorno: o ero a lezione o in biblioteca o studiavo con un amico.
E anch’io avevo un padre apprensivo. Contento di me, ma apprensivo.

Perdonate, adesso, una piccola citazione finale.

Vitaliano Brancati diceva che se si fa una foto ad un gruppo di padri di diversa provenienza, quello siciliano si riconosce subito: è quello che guarda in macchina con espressione ansiosa.

Ecco, mio padre era così.
Non era un macellaio koscher di Newark, ma un medico nato nella provincia di Palermo.

Ma era così.

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