Incontri traumatici e condizione umana
Se diamo una rapida scorsa alla storia umana, ci accorgiamo che è stato sempre molto arduo dare senso alle esperienze traumatiche che si sono susseguite nella vita degli individui e delle società.
È stato sempre arduo, radicalmente arduo. E non solo quando non si disponeva di sufficienti strumenti di analisi e diagnosi. Rimane difficile anche oggi, per noi, con tutta la nostra scienza e tecnologia. È arduo perché, nonostante i nostri incredibili progressi, “la vita rimane il regno del non lineare, la vita è il regno dell’autonomia del tempo”, come diceva Ilya Prigogine, premio Nobel per la termodinamica. E, a suo parere, infatti, proprio la lezione della termodinamica è che “non possiamo prevedere l’avvenire della vita, o della nostra società o dell’universo". La lezione del secondo principio della termodinamica è che questo avvenire è radicalmente "aperto”.
Perciò non aiuta, di fronte ai traumi dell’esistenza, di fronte alle esperienze traumatiche, ricorrere, come si è fatto quasi sempre nella storia passata, antica o moderna, alla retorica della “guerra”, del “nemico”, magari del nemico “invisibile”. Sarebbe troppo semplice e non coglieremmo il vero punto in questione. No, siamo, e lo siamo stati ancora più ripetutamente e violentemente nel passato, di fronte al tempo che irrompe e “si inscrive nella materia” (Prigogine); ci troviamo, ogni tanto, di fronte all’intrusione violenta di qualcosa che non va (Slavoj Zizek), siamo di fronte a un incontro scioccante, a un trauma appunto. Qualunque sia il termine a cui ricorriamo per narrarlo (catastrofi, cataclismi, guerre, genocidi, pestilenze, carestie, diluvio, crollo di imperi o di civiltà).
Trauma, suggerisce Zizek, non è “semplicemente il termine abbreviato per l’imprevedibile ricchezza caotica degli influssi ambientali”, perché trauma è appunto un “incontro”.
Ora, se, come pensava anche Gilles Deleuze, la vita è, prima di tutto, incontro, se divenire è incontrare, bisogna aggiungere, come sostiene Zizek in buona compagnia come vedremo, che “l’incontro traumatico è una condizione universale, quell’intrusione cioè che mette in moto il processo del “divenire uomini”.
Diversamente che per gli animali, infatti, per i quali il trauma è l’eccezione, esperita come una catastrofe che manda in rovina il loro modo di vivere, per gli umani il trauma è condizione universale e originaria. Cioè l’uomo “non viene semplicemente sopraffatto dall’impatto dell’incontro traumatico”. Perché, lo diceva già Hegel, l’uomo è capace di “intrattenersi con il negativo”, di contrapporsi al suo impatto destabilizzante tessendo un’intricata ragnatela simbolica. ZIzek richiama a questo proposito Steve Pinker, scienziato cognitivo, secondo il quale “si entra nell’universo simbolico, si diventa [quindi] uomini, solo come reazione a una scossa traumatica”. Insomma, pure se sono necessarie condizioni genetiche perché l’uomo sia in grado di simbolizzare e di parlare, assumendo la sua dimensione umana, “il fatto che per rispondere a un trauma simbolizziamo, non è [non dipende solo] nei nostri geni”.
E qui ZIzek non ha difficoltà a rilevare che questa lettura del ruolo dell’esperienza traumatica è la lezione della tradizione giudaica e cristiana, come lo sarà poi anche della psicanalisi. Infatti, per l’una come per l’altra, “la specifica attitudine umana (il linguaggio, il simbolico) non fa assegnamento sullo sviluppo delle intrinseche potenzialità dell’uomo, (come il risveglio di forze spirituali latenti o su qualche programma genetico), ma essa viene fatta scattare da un incontro traumatico esterno”.
Dice qualcosa di simile, Massimo Recalcati, quando sostiene che “la forza della tradizione cristiana consiste nel pensare che solo chi conosce la caduta può conoscere la sua gloria”, e che “la pienezza della vita non può essere separata dall’incontro fatale con il ‘negativo’”.
Insomma non pare azzardato pensare che nel trauma - impatto di ciò che è <altro
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