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(In)ter(per)culturando: ’Il rifugio magico’ di Norman Manea

Ci sono storie capaci di entrare nell’immaginario del lettore sin dalle prime pagine.

In alcuni casi è l’incipit ‘l’ago della bilancia’, più ragionevolmente lo diventano i primi capitoli, la loro capacità di rapire il lettore convincendolo a proseguire.

Leggendo le prime pagine de ‘Il rifugio magico’ di Norman Manea (Il Saggiatore, 2010, traduzione dal rumeno di Marco Cugno) si ha l’impressione di essere risucchiati da un vortice.

Ne ripropongo alcuni stralci per meglio comprendere cos’è questa sorta di effetto risucchio che Manea costruisce con la semplice abilità di chi narra intensamente (di seguito ripropongo stralci delle prime quindici pagine che possono comunque essere visionate per intero on line, dalla scheda del libro presso l’editore sono state pubblicate in visione gratuita dal web le prime quarantotto pagine oppure si può scaricare direttamente sul proprio computer un file pdf con le prime quarantadue pagine).


Mattina nuova, intatta. Il braccio lungo e forte, da mago, innesca l’illusionismo del giorno. La Lada gialla si ferma rasente al marciapiede.
«Alla stazione. Penn Station.»
Sopra il volante, la foto e il nome dell’autista: Lev Boltanskij.
«Lei è russo?»
«Lo ero.»
Voce rauca. Faccia larga, occhi piccoli.
«Di dove?»
«Odessa.»
«Odessa è in Ucraina, se non sbaglio.»
«Unione Sovietica! Odessa, e dunque anch’io, siamo sovietici. Pochi sanno la differenza tra Russia e Ucraina. Lei non è americano.»
«Adesso lo sono. Come lei.»
No, non è necessariamente l’inizio del giorno… L’esordio era stato lo sconosciuto che tendeva una mano piccola, bianca, e un cartoncino bianco, immacolato, con lettere dorate.
(pag.9)

Questo è l’incipit.
Manea usa la doppia aggettivazione per fornire dettagli non invasivi, qui proposti con semplicità prima e dopo il breve dialogo (nuova-intatta, lungo-forte, piccola-bianca e bianco-immacolato).
La prima scena tratteggiata - un uomo che entra in un taxi, diretto alla stazione - s’arricchisce di alcuni dettagli rimanendo però vago nei contorni specifici al punto che basta un breve dialogo, appena alcune battute altrettanto sospese per poi cambiare completamente scena perché “non è necessariamente l’inizio del giorno”.
Manea usa frequentemente i puntini di sospensione, un uso per certi versi dal sapore ferroso, come in un libro dalle pagine ingiallite.

«Mi chiedevo se non le piacerebbe fare pubblicità. Uno spot televisivo. La paga è buona.»
E, prima di lui, il piccolo dottor Koch. E, prima ancora, il pensiero rivolto a Lu, lo smacco di un incontro mancato .Il presente! Il presente, mormora il pedone. Il motto della sua nuova vita: il presente. Nient’altro: il presente! Nella vita precedente esistevano il passato colpevole e l’avvenire radioso, ma rinviato. Adesso, però, adesso…
(pag.9-10)

“L’inizio del giorno”, dunque, prima del taxi, ha portato un altro incontro, un uomo che allunga un biglietto da visita proponendo al personaggio di partecipare a uno spot televisivo. Ma “il giorno” è iniziato molto prima, con un altro incontro stavolta di una vecchia conoscenza (il dottor Koch); e prima ancora ci sono stati ragionamenti e ricordi che il personaggio stesso ha fatto di e su Lu.
In sostanza Manea riavvolge il nastro, e lo fa a rapidità supersonica, recuperando appena i ‘tag’ dei singoli eventi: ricordare Lu, il dottor Koch, lo sconosciuto con il cartoncino bianco e le lettere dorate, il taxi.
Ma c’è un presente, Manea centrifuga il lettore recuperando i fili di eventi differenti che intende proporre ‘giocando’ sui piani temporali, mischiando gli ‘ora’ a riproporre ogni singola scena con calma e parsimonia.
Il risultato è per l’appunto un risucchio.


«Ci pensi. Ha il mio biglietto da visita, mi telefoni. Se ci ripensa, mi telefoni.»
«Grazie. Gliel’ho detto, io non…»
«Never say never, come si dice da noi. Non è americano ,vero?»
«Perché non dovrei esserlo?… Gli americani non giocano a scacchi? La Coca-Cola la bevono, comunque. Anche la Pepsi. Io non la bevo, ma a scacchi ci giocavo. In gioventù.»
«Vede? Lo sapevo io. Ha la faccia giusta. Ci pensi. Ha il mio numero, mi telefoni. Come si chiama?»
«Peter.»
«Peter e poi?»
«Peter.»
«Ok, Peter, me lo ricordo. Mi chiami.»
«La faccia giusta!» bofonchia il pedone Peter, rimasto solo all’angolo tra Broadway e la 63ª Strada. Così crede il produttore, se lo sarà davvero. Una giornata gradevole, no, dottor Koch? James Curtis, produttore di pubblicità, mi ha offerto la pubblicità del giorno, dottore! Ecco, mi sono guardato allo
specchio Curtis.
(pag.11)

Dopo aver riavvolto il nastro, lasciando al lettore appena la possibilità di annusarne alcune indicazioni, Manea riparte da un punto preciso, l’incontro con “lo sconosciuto” che diventa poi “il pedone” e “il produttore di pubblicità”.
Si manifesta così, un’altra caratteristica della scrittura di Manea in questo romanzo: il variare la ‘denominazione’ di un personaggio a seconda del contesto. Una caratteristiche che diventerà ancora più evidente nelle pagine successive quando identificherà il personaggio stesso in diversi modi.

Tra l’altro, il protagonista di questo primo abbozzo di trama, viene qui per la prima volta nominato, Peter, sempre entro una dinamica narrativa di apparente casualità. Tutto accade come fosse un caso, come potesse anche andare diversamente e invece la narrazione va in una direzione precisa, una direzione dove la lente che ingrandisce personaggi, ambienti, scene, fatti e cronologie, questa lente s’avvicina e s’allontana anche all’improvviso, basta una battuta, una folata di vento e si cambia angolazione.

Manea si avvale di un narratore esterno, attraverso il quale può gestire lucidamente e con estrema abilità, descrizioni, dettagli, innesti di voci dirette quanto agganci rispetto alla trama, accenni di passato, virate su pensieri e ritorni al flusso principale del narrato. Eppure, di tanto in tanto questo narratore esterno viene scalzata dalla voce diretta di Peter (o, in seguito, del personaggio dominante), appena alcuni pensieri, spesso ironici o comunque pieni di sfumature umorali, a inspessire i contesti in corso.
“Una giornata gradevole, no, dottor Koch? ” Il protagonista pensando si rivolge direttamente a uno degli altri personaggi, per ora appena nominato dunque il lettore non ha la più pallida idea di chi sia effettivamente e cos’è successo oggi fra loro quanto in passato. Eppure basta l’inserimento di questo pensiero diretto a cambiare il punto di vista, a mostrare quanto l’intera sequenza di azioni ha retrogusti bizzarri, capaci di strappare sorrisi acidi quanto moti di stupore.

L’effetto risucchio sta tutto in queste poche ma potentissime tecniche narrative che Manea padroneggia con sicurezza e grande abilità. Il lettore potrebbe non accorgersene, eppure è estremamente facile finire assorbito da un mondo in fase di costruzione, una sorta di work in progress apparente dove si espongono appena alcune fondamenta per poi - con la dovuta calma - andare e recuperare ogni singolo muro, nervi esposti in attesa che la lente li ingrandisca svelandoli.
Manea sa esattamente come fare, e lo dimostra con questa ‘regia’ potente e abile celata da una scrittura visiva, intensa ma volutamente semplice, a ricreare una linearità che in realtà non esiste tra rimandi, riprese, accenni, abbozzi, contestualizzazioni e virate; eppure in ogni ‘blocco narrativo’, una volta entrati, tutto appare chiaro e semplice.

Un passo a sinistra, e poi un altro. Scende dal marciapiede, alza la mano. Taxi! La Lada gialla rallenta e accosta.
«Alla stazione. Penn Station.»
Sopra il volante, la foto e il nome dell’autista: Lev Boltanskij.
«Lei è russo?»
«Lo ero.»
Accento russo. Voce rauca, da fumatore. Faccia larga, mite, occhi piccoli, denti grandi, fronte solcata dalle rughe.
«Di dove?»
«Odessa. Pochi sanno la differenza tra Russia e Ucraina. Lei non è americano.»
«Ora, lo sono, come lei… Le piace qui, sulla Luna? La capitale degli esuli. Dei lunatici e dei sonnambuli. Le piace? Una meraviglia. Una delle 777 meraviglie del mondo.»
(pag.11-12)

Terminato l’incontro con il pedone sconosciuto produttore di pubblicità, si torna nel taxi, esattamente alla scena dell’incipit. Esattamente non proprio. Rileggendo battute e innesti del narratore risulta evidente che qualcosa è cambiato. L’autore sta riproponendo la stessa scena, il lettore ne è consapevole per i troppi dettagli disseminati, eppure non è proprio la stessa.
Manea sceglie di amplificare una sorta di ‘effetto mondo nel caos’ dovuto ai salti temporali, le riprese e gli innesti delle virate; e lo realizza con piccoli ma efficaci accorgimenti: riprende un ‘già narrato’ modificandone alcuni elementi e così facendo, modificando anche la potenziale percezione del lettore. Peter sale su un taxi, chiede di essere portato alla stazione, questi elementi restano fissi ma variano alcune battute e i successivi svolgimenti, in un qualche modo s’aggiungono sviluppi e si cambiano leggermente i contorni.
Dunque a pag.12 si torna all’incipit, ma è un altro incipit o comunque una scena ‘con varianti’ che trascina il lettore nei successivi fatti ad aprire nuovi scenari, ulteriori chiarimenti, precisazioni nonché ‘finestre’ su quanto è stato riavvolto in precedenza ma non spiegato.

Lev o Lëva tace, ma ascolta. Non fa domande, non sembra interessato al volubile passeggero. Guida rilassato, lentamente, non ha la spigliatezza del tassista newyorkese. Sulla 34ª Strada, davanti alla stazione, spegne con calma il motore e, simultaneamente, il tassametro.
«Quant’è?»
«Otto dollari.»
Il passeggero fruga nelle tasche dei pantaloni. Prima in una, poi nell’altra. Poi, la giacca. Due tasche dei pantaloni, quattro tasche della giacca. Balbetta, non balbetta più.
(pag.12)

La scena prosegue, il punto di vista dominante però è diventato quello di Lev, ovvero il taxista, mentre l’altro personaggio, Peter, viene da pag.12 in poi nominato in molti modi a seconda del contesto e la situazione in corso, a rafforzare l’impressione che lui sia tante ‘cose’ comunque non oggettive, bensì per l’appunto variabili assieme a ciò che si sta narrando.
Allora Peter è anche “Il passeggero”, e “il cliente” (di Lev), poi “il mentecatto” (quando, in seguito, diventa chiaro che Peter non ha i soldi per pagare la corsa), ancora è “il passeggero”(quando si sporge verso Lev per allungargli la sua borsa, piena di libri e nient’altro, che gli lascia come ‘pegno’, una sorta di garanzia che pagherà appena recupererà il portafoglio). Infine Peter è “il viaggiatore” quando, sceso dal taxi e risolto in un ‘qualche modo’ il problema del pagamento del taxi, fissa il tabellone alla stazione.

Il formicaio. Rumore assordante, confusione. Il viaggiatore scopre, dopo un po’, il tabellone delle informazioni. Poi il binario 9. Poi, il treno.
Il PRESENTE, questo è tutto. Non è male, non è male, cadenza il treno lasciando, lentamente, la metropoli.
(pag.15)

Finisce dunque così questa prima carrellata sul mondo di Peter, il capitolo poi prosegue dopo uno stacco, con ulteriori inquadrature di alcuni sviluppi fin qui appena abbozzati.
Il viaggiatore. Il tabellone delle informazioni. Poi il binario. Poi il treno. E Il Presente.
Sono questi gli ingredienti a recuperare un punto di ripartenza per i successivi svolgimenti.

**

Ora dovrebbe essere più chiaro quanto intendevo all’inizio: Leggere le prime pagine de ‘Il rifugio magico’ di Norman Manea lascia l’impressione di essere stati risucchiati da un vortice.
Un vortice proposto come semplice pur essendo evidentemente complesso, articolato e sfilacciato.
Ma pur sempre un vortice a centrifugare davvero tanto, e chi proseguirà la lettura di questo libro scoprirà che le prima pagine non sono che le briciole di fatti anche fortemente contestualizzati rispetto agli svolgimenti storici recenti.

Manea ha vissuto in un campo di concentramento in Ucraina, come accenno in QUESTO pezzo dove mi occupo di un altra sua pubblicazione precedente, Ottobre, ore otto, sempre edito da Il Saggiore, 1998. L’olocausto è dunque l’ossessione che più alimenta le sue visioni narrative, l’olocausto non soltanto in quanto evento storico ma considerandone anche tutte le implicazioni affettive e le diramazioni pratiche che ha scatenato nell’autore (allontanamenti, perdite dei contatto con persone care, l’impossibilità di ‘gestire’ la propria vita quanto la consapevolezza che la vita non è pienamente a propria disposizione e che gli affetti sono ‘variabili incerte’ che possono mutare indipendentemente dalle volontà dei singoli, …).

In questo libro si rintracciano molte di queste tematiche, sebbene l’impasto narrativo costruisca e decostruisca continuamente trame precise tra volti e corpi che lentamente assumono forme precise, sempre più riconoscibili, sempre più palpabili.

Inevitabilmente la morte entra tra le pagine, se ne avverte il rumore di fondo, un lento raschiare tra sotto trame, volti e voci che s’alternano. E assieme alla morte, anche le mancanze, le solitudini e le grandi sofferenze di chi continua a vivere senza qualcosa o qualcuno. Le sottrazioni - di diverse forme, manifestazioni e tipologie – sono a mio avvis elementi centrali in questo romanzo.
 
E, altrettanto inevitabilmente, lo stile di Manea può non risultare comprensibile a tutti, non a una prima lettura, nella misura in cui è necessario abituarsi alle continue virate, i cambiamenti di punti di vista e angolazioni, questo 'riavvolgere' il nastro delle trame e far ripartire la 'visione' a un certo punto poi a un altro e così via.
 
Si tratta di un narrare in apparenza semplice, che resta trasparente nelle singole parti ma che espone tutte le complessità d'una scrittura articolata, figlia di incastri precisi quanto di approfondimenti costanti. Manea afferra il lettore per le caviglie, e lo trascina sempre più giù, sempre più nelle profondità di personaggi, intrecci e tematiche, e facendolo svela ulteriori habitat, fondali inesplorati.
 
Diviso in parti, è un libro estremamente intenso, visivo, coinvolgente e destabilizzante. È necessario predisporsi a una navigazione in piena tempesta, quanto a non comprendere subito ogni collegamento. È un romanzo che si sgretola davanti agli occhi del lettore impaziente, davanti alle urgenze di avere tutto e subito.
Ma è anche un libro che mostra com’è possibile ricreare una panoramica, incastrando e ricreando tasselli differenti ma sapientemente accostati: lavorando su lingua, recettori e collegamenti, un lavoro artigianale, paziente.

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