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Il trio di Bill Frisell entusiasma i fan giapponesi al Blue Note di Tokyo

Tre giorni intensi, quelli di Bill Frisell nel noto locale della capitale nipponica. Assisto al secondo set del secondo giorno. Una scelta motivata dal fatto che, sebbene ad un’ora un po’ insolita, le 13 e 30, per circa due ore si è offerto alla curiosità dei presenti nel foyer del locale.

Per rompere il ghiaccio e scrollarsi di dosso la timidezza, inizia a suonare una medley di standards – su tutti Thelonious Monk -, conclusa con la sua “Rambler”. Per il secondo pezzo, si avvicina a lui un giovane chitarrista giapponese, tale Yamauchi, che non sta nella pelle al pensiero di poter suonare assieme ad uno dei suoi miti. Ecco allora “Nowhere Man”, un brano che testimonia l’amore di Frisell per le canzoni dei Beatles, che, come questa, ha avuto modo di ascoltare quando sono uscite, nonostante la giovanissima età (è nato il 18 marzo 1951).

Terminato il breve live, il musicista comincia a parlare a ruota libera. Ricorda il gruppo dei Ventures, la Surfin’Music. Vede sulle copertine dei dischi acquistati dei Beatles le chitarre Fender, se ne innamora, e cerca di riprodurne con costanza il suono con il suo strumento, avvicinandosene sempre più. “Ho la sensazione che ciò che esce quando suono, sia la mia vera voce”. La sua Fender Telecaster è però un puzzle di pezzi diversi – pick up, bridge, etc. - assemblati secondo i suoi desideri da uno stimato J.Black. Frisell confessa di non usare molto il vibrato e di non cambiare l’approccio ad un brano a seconda delle circostanze o dei partners con cui collabora : “la mia mente è sempre la stessa”.

Poi spiega il suo interesse per “Lush Life”. “Ho letto il libro ‘Lush Life’ di Billy Strayhorn, che mi ha fatto pensare a lungo alla sua relazione con Duke Ellington. Quanto alla canzone, sono anni che cerco di suonarla” e , finalmente, ci è riuscito incidendo “Epistrophy”, la seconda puntata, dopo “Small Town”, del Live al Village Vanguard assieme a Thomas Morgan nel marzo del 2016.

L’accenno a “Crepuscole with Nellie”gli consente di esternare la sua ammirazione per Thelonious Monk, nei cui brani, e cita proprio “Epistrophy”, ci sono sottili differenze che si interiorizzano solo suonandoli e studiandoli ripetutamente.

Alla domanda “ A che cosa pensi quando crei il tuo Sound?” risponde “amo suonare la mia chitarra e far felice chi mi ascolta, anche se non posso predire cosa voglia sentire. Sono però onesto. Suono soltanto quello che sento in quel determinato momento”.

Il secondo set, per la gioia dei presenti, dura novanta minuti e conferma una maggiore durata rispetto al primo, non essendo condizionato dal tempo occorrente per far cenare i musicisti, far defluire i primi spettatori e far entrare i secondi.

Il bello di Frisell è che quando sale sul palco, mano a mano che il tempo passa aumenta il suo piacere di suonare e forse non terminerebbe mai se non al sopraggiungimento della stanchezza fisica.

Dieci i brani in scaletta nel secondo set, più un bis inaspettato, quanto a scelta del titolo.

I primi tre, eseguiti senza soluzione di continuità, sono due originali del leader, “Flood” e “Leeves”, ed uno di Lee Konitz, “Subconscious Lee”. Il primo fa parte della colonna sonora del film “The great Flood”(2014), diretto da Bill Morrison, che documenta la terribile piena del Mississippi nel 1927; il secondo è un 4/4 lento, scandito da colpi assestati all’unisono da rullante e piatto; il terzo, preceduto da loops e suoni che sembrano provenire dallo spazio, sviluppa uno swing spezzettato, in modo da mantenere una tensione ininterrotta. Per il quarto titolo, Frisell rispolvera una sua antica composizione, “Rambler”, del 1984, una morbida ballata dall’andamento ondeggiante.

Rispetto al duo protagonista delle incisioni succitate, grazie alla presenza di Rudy Royston (1970), batterista tenace che ricorda nel rigore e nella potenza Max Roach, i brani acquistano una grinta e una tensione maggiori, lasciandosi alle spalle quell’alone elegiaco.

Ed ecco “Lush Life”, la composizione di Billy Strayhorn a lungo indagata, ma mai eseguita, ed “Epistrophy” di Thelonious Monk, in una versione molto spezzattata, percorsa da improvvisazioni fantasiose.

“Goldfinger”, di John Barry, Leslie Bricusse e Anthony Newley, dalla colonna sonora del film omonimo, con Sean Connery, lo 007 più apprezzato, sarebbe l’ultimo brano. Frisell ama sia l’interprete che la musica, a suo dire interessante indipendentemente dal contesto filmico.

I numerosi applausi e richiami a gran voce, fanno rientrare in fretta sul palco il trio che intona a sorpresa “We shall overcome”, facendo felice una platea appassionata di chitarristi, non solo di Jazz, spesso ospitati nello storico locale.

Frisell è sempre un piacere ascoltarlo, vederlo cambiare sonorità con gusto, capendo, fin dalle prime note anche ad occhi chiusi, che è lui che sta suonando.

Thomas Morgan (1981) ha una cavata antica, nel suo walkin’ bass ricco di armonici c’è la bellezza di un maestoso strumento ligneo con le corde di budello.

Rudy Royston, essendone testimonial, ha usato una batteria Canopus, un marchio giapponese sempre più adottato da musicisti professionisti, scegliendo una cassa di piccole dimensioni, due tom, tre piatti di medie dimensioni, alcuni chiodati ed un piccolo splash. In posizione elegantemente eretta, molto più in alto rispetto al livello di piatti e tamburi, ha stimolato e accompagnato con intelligenza le idee del leader, nel momento in cui la sua chitarra le esprimeva.

Foto: Photo by Takuo Sato

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