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 Home page > Tribuna Libera > Il terrore di ogni bomba e l’orrore della giustizia ingiusta

Il terrore di ogni bomba e l’orrore della giustizia ingiusta

«Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra di nessuno, siete perduti!»

Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’ineguaglianza (1754)

Il 17 agosto 2015 alle 7 di sera un idiota criminale ha fatto esplodere una bomba di fronte al tempio induista e buddista di Erawan, nel centro di Bangkok. L’attacco contro passanti innocenti ha causato la morte di almeno venti persone e ne ha ferite oltre 140, tra cui persone in preghiera, moto-taxisti e numerosi turisti cinesi. È stato uno dei più gravi atti di violenza mai registrati in un Paese ben noto per la sua cultura pacifica e cordiale. Anche una mia giovanissima collega è rimasta gravemente ferita.

Un’ampia parte della stampa ha immediatamente etichettato l’attacco come atto terroristico: potrebbe aver ragione, considerato il terrore che l’attentato ha generato nella metropoli, dove dodici milioni di abitanti convivono felicemente insieme a milioni di turisti, senza alcun problema di sicurezza. A un mese di distanza, le indagini della polizia thailandese muovono nelle direzioni più disparate, senza aver chiarezza alcuna su quale ideologia malata possa aver ispirato l’attentatore. Il luogo molto particolare in cui è avvenuto l’attacco, così come la professionalità con cui è stato approntato l’ordigno, suggeriscono che possa essersi trattato di una qualche forma di rappresaglia.

Il profilo dell’attentatore potrebbe essere quello di qualcuno desideroso di “fare giustizia da sé”, un atto di violenza cieca, ottusa e incontrollata in risposta alla percezione di aver subito una violazione dei propri diritti. Potrebbe trattarsi di un ennesimo caso di esplosivo impiego di forza bruta contro il diritto (might against right), istigato da una qualche grossolana politica di intimidazione che potrebbe aver sfogato il proprio malcontento contro un gruppo impreparato di persone innocenti. Le nostre società globalizzate, propense ad approfondire le pratiche e le politiche connesse ai diritti umani e ad assicurare un trattamento umano a chi si sia macchiato di crimini anche efferati, ancora non hanno studiato a sufficienza questa nicchia di vendetta espressa in violenza folle e crimine violento.

Il mondo vive davvero nell’illusione che il sistema moderno basato sul diritto nazionale e internazionale, governato dalle nazioni e dai rispettivi governi, offra sufficiente speranza a persone disperate. Non è così. Pesi e misure diverse vengono applicati in numerosi casi dalle politiche internazionali sui diritti. L’UNPO (l’Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati) da più di venticinque anni denuncia la macroscopica violazione dei diritti internazionali di oltre un centinaio di popoli e nazioni non riconosciuti. Così che, per ogni San Marino accolto dalle Nazioni Unite, o per ogni Kossovo riconosciuto dall’Unione Europea, vi è un centinaio di popoli i cui diritti non vengono riconosciuti, nel silenzio sconvolgente delle istituzioni religiose, dei 193 governi membri delle Nazioni Unite, addirittura dei premi Nobel, i quali tutti preferiscono starsene zitti.

Per esempio, recentemente le autorità thailandesi hanno rimpatriato in Cina un gruppo di 109 Uiguri richiedenti asilo, nonostante la loro permanenza in Thailandia per oltre un anno – in flagrante violazione del diritto internazionale, secondo quanto dichiarato dalle Nazioni Unite. Le famiglie sono state divise: gli uomini mandati in Cina, donne e bambini in Turchia. Proprio come se fossero pacchi indesiderati rispediti al mittente. Analogamente altre minoranze, come i Rohingya dello Stato di Rakhine in Myanmar (Birmania), si sentono trattate male in varie parti del Sud-Est asiatico, con situazioni di violenza istigata da monaci buddisti in Myanmar. Ogni giorno i social network sono inondati da citazioni di Confucio, Papa Francesco, John Kennedy, Nelson Mandela, Buddha, il sacro Corano, creando l’illusione di una convergenza e di una conversione alla pace, alla tolleranza, alle giustizia e alla solidarietà. Ma nello stesso tempo comportamenti improntati alla competizione, all’ineguaglianza, a pesanti prepotenze e intimidazioni affermano il “potere prima del dovere” e continuano a regolare la vita di ogni giorno delle società civili, dei governi e del settore privato.

Abbiamo dimenticato, come la storia insegnerebbe, che sopprimendo le speranze di centinaia di migliaia di persone innocenti, spesso giovani poco acculturati, si generano manciate di ribelli impazziti, disposti a eseguire atti di vendetta sanguinosa. La risposta comune, per secoli e in molti Paesi, e secondo quanto dettato a livello nazionale dal diritto, è quella di punire i responsabili con carcere a vita o pena di morte. Solo in qualche raro caso viene presa in considerazione l’opportunità di prestare ascolto alla richiesta di un futuro dignitoso per il popolo rappresentato da questi ribelli. Eppure è proprio applicando una qualche forma di giustizia restaurativa che si potrebbe ripristinare una relazione umana tra i criminali e le vittime. Invece, a causa di un tipo medievale di giustizia punitiva, perfino le vittime hanno raramente l’opportunità di trovare comprensione e chiusura per i crimini efferati che hanno distrutto le loro famiglie e le loro vite. Così in troppe parti del mondo si genera un circolo vizioso di vendetta violenta e folle, che perpetua terrorismo e repressione.

Nella mia carriera nelle Nazioni Unite ho avuto occasione di incontrare giovani richiedenti asilo rifiutati e divenuti violenti; ho parlato con contadini disperatamente poveri rinati come terroristi e narcotrafficanti. Molto spesso tali persone ritenevano di essere state vittime prima di divenire dei criminali. Le loro vivide descrizioni delle umiliazioni inumane subite e dei diritti umani loro negati mi sono parse sincere e intellettualmente oneste. Far giustizia da sé, per quanto palesemente sbagliato, era l’unica forma di giustizia che essi stessi erano in grado di concepire. Di certo queste persone non avevano letto Rousseau.

Duecentosessant’anni dopo l’allarme lanciato all’umanità da Rousseau sui danni collaterali della giustizia ingiusta, posso solo concludere che i nostri colti leader, impegnati nei governi, nei parlamenti, nelle strutture della giustizia delle nazioni “costituzionali”, dovrebbero considerare strumenti per fare giustizia alternativi più intelligenti, qualora vogliano davvero rompere il circolo vizioso della violenza inumana e folle che abbiamo creato nelle nostre società globalizzate cosiddette “moderne”.

 

Sandro Calvani per Segnali di Fumo

Ex direttore dell’UNICRI (United Nations Inter-regional Crime and Justice Research Institute), membro del Comitato direttivo globale di Restorative Justice International. La sua opinione non rappresenta necessariamente quella delle istituzioni internazionali dove ha lavorato negli ultimi 35 anni in 135 nazioni.

www.sandrocalvani.it

Traduzione dall’originale inglese di Chiara Somajni.

Il testo in lingua inglese

Foto: Flickr, Mith Huang

Questo articolo è stato pubblicato qui

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