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Il nuovo progetto per la valutazione delle istituzioni scolastiche

Dai progetti "VSQ" e "Valorizza" gelminiani a quello "profumato" del governo dei Professori, col suggestivo titolo "VALeS"... Ma siamo proprio sicuri che la scuola italiana abbia bisogno di questi scimmiottamenti di sistemi di valutazione discutibili nel merito e poco scientifici nel metodo?

"Si vales bene est. Ego valeo". Citando scherzosamente l’apertura di una nota lettera di Cicerone alla moglie (Ad familiares, XIV, 8) vorrei introdurre un argomento sicuramente poco appassionante per i non addetti ai lavori ma che, d’altra parte, potrebbe avere delle ricadute non indifferenti su un servizio pubblico fondamentale come la scuola, e quindi su tutti coloro che ne fruiscono. Mi riferisco al nuovo progetto del MIUR per la valutazione delle istituzioni scolastiche, che fa seguito ai precedenti due avviati dalla ministra Gelmini (“VSQ” e “Valorizza” ), che nel frattempo si sono “spiaggiati” miseramente, dopo l’urto contro gli scogli di una scuola che pare proprio non gradire ambigue ‘sperimentazioni’.

Il nuovo progetto, battezzato dallo staff del Ministro Profumo col suggestivo acronimo “VALeS” (Valutazione e Sviluppo Scuola), sembrerebbe evocare il classico saluto latino, di cui Cicerone faceva spesso uso nelle sue epistole. Ebbene, direi che il problema è racchiuso proprio in quel “si vales bene est”, laddove quest’antica ed augurale formula di saluto (“è un bene se tu stai bene”) venga invece ad esprimere un legittimo dubbio sull’effettivo valore di quest’ennesimo progetto di valutazione pseudo-meritocratica della scuola.

Sebbene si noti qualche lieve differenza rispetto a quelli precedenti – che hanno già drenato notevoli risorse economiche, con ben scarsi risultati, sottraendole agli stipendi degli insegnanti, attraverso il blocco degli scatti – il nuovo progetto continua infatti a percorrere la sdrucciolevole strada della valutazione aziendalista di un’astratta “accountability” della funzione docente. La cosa peggiore è che lo fa in un momento in cui si è comunque deciso di tagliare drasticamente le risorse per la scuola pubblica, inserendo subdolamente al suo interno elementi di privatizzazione ed interessi estranei al processo formativo.

La pretesa, singolare quanto provocatoria, è che le istituzioni scolastiche (o meglio, un campione di 300 scuole italiane su 10.000, ossia il 3%) si autocandidino a partecipare a questo appassionante gioco al massacro, in cambio di una cifra capitaria che andrà da 10.000 e 20.000 euro che, precisa il MIUR, non hanno una funzione “premiale”, ma piuttosto servono a "sostenere il piano di miglioramento”, come "riconoscimento per il maggiore impegno profuso dalla comunità professionale nel partecipare al processo di valutazione”.

La cosa che lascia perplessi è che buona parte delle organizzazioni della scuola, sindacali o no, non si siano ancora pronunciate con chiarezza sulla riproposizione di un criterio valutativo che, nei paesi in cui è stato applicato per molti anni, ha dato spesso risultati scarsi o del tutto negativi. Mi sembra quindi ancor più significativo che ad esprimere serie critiche in proposito, nel merito come nel metodo, sia stato invece un insigne docente universitario, un esperto di Statistica come il professor Giorgio Tassinari. Egli, infatti, ha contestato la pretesa scientificità d’un metodo di rilevazione dei processi di apprendimento che, pur restando saldamente ancorato al pilastro delle “prove nazionali” propinate dall’INVALSI, vorrebbe correggerne i risultati – falsati dai test in sé – mediante la stima del c.d. “valore aggiunto”.

Si tratta di confrontare i dati di un anno scolastico con quelli del successivo, per rettificare le previste distorsioni. Il fatto è che non basta confrontare i risultati di anni successivi per ovviare ad una rilevazione meccanica e falsamente ‘oggettiva’ degli apprendimenti. Scrive Tassinari: “Se ci focalizzassimo unicamente sulle misure di tipo puntuale per la valutazione delle scuole e degli insegnanti non potremmo tener conto della qualità del percorso scolastico precedente degli alunni né dei fattori di tipo non scolastico che influenzano la loro performance. Questi fattori sono altamente correlati con le caratteristiche strutturali delle famiglie, quali il gruppo etnico o il reddito. Ne risulta che molta parte della variabilità nei punteggi medi delle scuole è causata da questa disuguaglianza nei “punti di partenza” che difficilmente può essere tenuta sotto controllo dagli insegnanti”. 

Non si tratta di un’astratta e generica critica alla valutazione delle “performances” didattiche in un contesto ancora troppo variegato sul piano socio-culturale, che potrebbe formulare qualsiasi docente con un po’ di esperienza professionale. Un esperto di statistica, molto ben documentato sulle esperienze statunitensi che i nostri governi si sforzano penosamente di scimmiottare, esprime seri dubbi proprio sulla validità di simili strumenti di misurazione dei processi formativi. “Chiariamo innanzitutto che l’impiego di test standardizzati per misurare le competenze degli studenti permette di osservare solo una frazione, probabilmente non la più importante, dell’outcome educativo degli insegnanti e delle scuole. Ovviamente dovremmo anche essere sicuri che il test somministrato sia in grado (anche con la non piccola limitazione a cui abbiamo appena accennato) di misurare effettivamente i costrutti “qualità della scuola” e “qualità dell’insegnante”, il che è assai lontano dall’essere una certezza. [...] Oltre ai rischi connessi all’eccesso di variabilità delle misure e della fragilità dei risultati rispetto alle assunzioni impiegate per la modellizzazione, vi è un ulteriore rischio connesso all’uso delle misure di valore aggiunto e dei test più in generale, che potremmo chiamare effetto della norma sul comportamento”. 

Come ho scritto in un breve commento all’articolo, condivido in pieno il qualificato e documentato intervento del prof. Tassinari. Si tratta di un’analisi che parte dai risultati quanto meno discutibili registrabili negli Stati che adottano da decenni questi sistemi di valutazione delle scuole ed i cui docenti sono stati ormai condizionati ad aderire senza condizioni ad un pervasivo modo di “teaching to the test”.

Però un insegnamento finalizzato quasi esclusivamente al superamento dei test nazionali sarebbe il modo peggiore per affrontare i pur innegabili “punti di debolezza” della scuola italiana, banalizzando la didattica e penalizzando ovviamente i contesti socialmente più fragili. Il vero problema, d’altra parte, resta quello di definire le reali finalità della stessa valutazione. Si tratta di aiutare le situazioni più delicate con un intervento di supporto – finanziario e di qualificazione professionale degli operatori – come vorrebbero far intendere gli estensori del progetto VALeS – oppure si utilizzerà strumentalmente tale valutazione per penalizzare ulteriormente le scuole più a rischio?

I punti deboli del progetto – oltre alla ridotta capacità di rappresentazione del campione ed alla scarsa definizione degli stessi criteri metodologici – credo che siano riscontrabili soprattutto in una visione ancora freddamente tecnicista dei processi di apprendimento e in un’evidente dipendenza di tali “sperimentazioni” dalla decisione di tagliare drasticamente fondi e stipendi per la scuola pubblica.

Grazie, quindi, al prof. Tassinari che ci ha ricordato, opportunamente, che chi ha la pretesa di valutare dovrebbe avere – o comunque esplicitare – una visione chiara dei propri valori di riferimento, quella che una volta si definiva “tassonomia”: “Ogni sistema “serio”, come si dice in gergo accademico, dovrebbe avere dietro una teoria almeno a maglie larghe. Nel nostro caso, trattandosi di “valutazione”, sembrerebbe necessario aver costruito dapprima una forma, anche debole, di teoria dei valori (si badi che questa non serve all’economia capitalistica di mercato, perché il rapporto tra i prezzi di due merci esprime, da sé, il rapporto tra i rispettivi valori). Ma se il mercato non c’è, in effetti, e noi invece vorremmo indurlo artificiosamente, sembra proprio che una teoria dei valori sia necessaria. A noi rimane il dubbio che una techné che sia valida per tutte le stagioni sia, in fondo, una mistificazione “.

I valori che vanno bene al “Mercato” – con tutti il rispetto per i Professori che ci governano – non vanno bene a chi passa la propria vita a colmare gli “spread” che si riscontrano tra le basi culturali di tanti alunni svantaggiati e quelle di pochi privilegiati. Ecco perché uno come me – che ha insegnato per un quarto di secolo in ambienti socio-economicamente e culturalmente degradati ma che si è da poco trasferito in una “scuola di prima fascia” – prova oggi un certo disagio di fronte all’autocompiacimento col quale tanti docenti e dirigenti scolastici guardano a questi progetti.

Sono convinto che la scuola pubblica non possa e non debba restare un indistinto carrozzone e che valutare la funzione docente sia un dovere di chi abbia il compito di garantire il diritto-dovere costituzionale ad un’istruzione-educazione di buon livello per tutti, a partire da chi ne ha più bisogno per diventare un cittadino responsabile e partecipe. Questo non significa, però, aderire ad una strisciante mutazione genetica della scuola italiana, i cui pilastri non siano più le normative nazionali e le autonomie scolastiche, bensì discutibili agenzie di ‘rating’ scolastico come l’INDIRE e l’INVALSI.

Ecco perché, citando ancora Cicerone, penso che “Si VALeS bene non est” dovremmo perciò congedare questo progetto con un latinissimo “Vale!” o, napoletanamente parlando, con uno “Stàteve bbuone!”

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