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Il nuovo marketing degli Enti Pubblici

Il nuovo Codice di Proprietà intellettuale introduce l’utilizzo del marchio per gli Enti Pubblici. Opportunità e criticità.

Con il nuovo Codice di Proprietà intellettuale, entrato recentemente in vigore ed introdotto tramite il Decreto Legislativo 131/2010 del 13 Agosto 2010 (si noti la data e la modalità legislativa), viene data la possibilità a Regioni, Province e Comuni di ottenere un marchio ad uso commerciale “avente ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico ed ambientale relativo al territorio”. Per citare un caso concreto il Comune di Milano, ad esempio, può depositare il marchio con lo stemma araldico della città, piuttosto che con la figura stilizzata del duomo e commercializzare prodotti recanti il marchio stesso, proprio come se quel marchio fosse un brand di una azienda privata. Sui proventi della conseguente commercializzazione di borsette, maglie, etc. la cui produzione è affidata ad imprese private (es. Lorentz sempre nel caso di Milano), il Comune incasserà una royalty che oscilla tra l’8% e il 12% destinabile al “finanziamento di attività istituzionali o alla copertura degli eventuali disavanzi pregressi dell’ente”. Un modo, insomma, per fare cassa.

In tempi di vacche magre ed in un paese che ha perso la sua sovranità monetaria, l’elemento positivo di questa legislazione è dato certamente dalla possibilità di aumentare le entrate degli enti pubblici senza andare a pescare nelle tasche dei cittadini. Ma accanto a questo si pongono due problematiche: 1) una ulteriore commistione tra pubblico e privato che, tramite i meccanismi di assegnazione della produzione alle imprese, può dare adito a comportamenti poco limpidi come già avviene nel mondo dell’outsourcing 2) il pericolo che le scelte di spesa della Pubblica Amministrazione siano maggiormente dirette alla valorizzazione commerciale di un marchio e non al solo vantaggio degli abitanti del territorio. Mi spiego: visto che nei destinatari della spesa pubblica viene indirettamente introdotta la figura del turista, seguendo la razionalità economica, l’ente potrebbe decidere con i soldi pubblici di eseguire lavori di arredo urbano sulla piazza principale del paese piuttosto che costruire una scuola o un ospedale. Se così fosse i benefici della nuova legislazione verrebbero indiscutibilmente meno.

Se, fatta la legge, non possiamo più opporre opposizione a questa scelta del legislatore (scelta per la quale non siamo stati nemmeno interpellati, vista la modalità tecnica della sua introduzione), quanto meno, per acquistare credibilità, questo processo deve essere sottoposto ad una grande trasparenza sia sulle modalità di applicazione, sia sulle scelte che, a monte e a valle, esso comporta. E’ quindi doveroso affiancare una informativa costante: a) sui meccanismi di appalto della produzione per la verifica della loro correttezza b) sull’andamento e la ripartizione dei profitti in modo che il cittadino possa verificare se la royalty pubblica sia sempre la massima possibile c) sulle scelte di spesa pubblica mirate alla valorizzazione del marchio decise dall’amministrazione pubblica affinché si possa valutare che esse siano effettivamente intraprese in primis per il bene del contribuente e solo in seguito nell’ottica di attirare il turista o l’agenzia di viaggio.

A queste considerazioni “tecniche” vorrei aggiungerne una meno rigorosa. In queste occasioni non posso non avvertire un disagio che nasce dal vedere come nella nostra società anche un’opera d’arte, un paesaggio, una chiesa, frutto di anni di storia, del lavoro e della genialità di persone che si sono succedute nel tempo, vengano sempre più considerati come beni economici e non come patrimonio comune verso il quale nutrire un sentimento di sacro rispetto imbevuto di un silenzio lontano dal tintinnare di monete. Questo, ahinoi!, fa parte di un processo ben più ampio e non certo nuovo, che sempre più ci vede identificare le cose, tangibili e non tangibili che ci circondano, con il loro valore economico.

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