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Il nanismo della Borsa italiana

Nonostante i suoi gloriosi 200 anni di storia, la Borsa italiana soffre da sempre di una dolorosa sindrome di nanismo.

Sommando tutte le aziende quotate a Piazza Affari si arriva ad una capitalizzazione pari al 28% del Pil. Basta fare un confronto con la Borsa del Vietnam, che raggiunge quota 36%, e già siamo più piccoli. Anche i listini dello Sri Lanka, del Perù, della Giordania, di Cipro ci battono. Persino le quotazioni azionarie di Trinidad Tobago, un palazzo di vetro in mezzo ai Caraibi, pesano sull'economia del proprio paese in proporzione maggiore rispetto all'Italia.
 
Saremo anche la settima potenza economica mondiale, ma sui mercati finanziari ci riscopriamo ai livelli del Terzo Mondo.
 
E' anche questo uno dei motivi se le nostre imprese crescono poco e il Pil si muove da decenni a passo di lumaca, come sottolinea l'ex vice-ministro dell'Economia Roberto Pinza"A frenare lo sviluppo è da un lato la struttura produttiva formata da imprese medio-piccole e dall'altro il debole rapporto con la finanza".
 
Secondo il Fondo Monetario, il Pil italiano a fine 2010 era pari a poco più di 2mila miliardi di dollari, simile a quella del Brasile.
 
Con la differenza che la Borsa di San Paolo capitalizza 1.500 miliardi di dollari, quella di Milano appena 570. Non è un caso se il Brasile rientra tra i dinamici paesi emergenti mentre il Bel Paese è uno dei più statici.
 
Se sui listini azionari siamo nani, non andiamo meglio su quello obbligazionario.
 
Le società italiane che hanno un rating sono giusto una ventina, di cui quasi la metà ex pubbliche. I nostri bond aziendali sul mercato ammontano, secondo la banca dati diDealogic, a 171 miliardi di dollari, pari all'8,4% del Pil, ben inferiore all'11,2% della Thailandia o dal 9,9% del Kazakhstan. Meglio non fare il paragone con Usa, Svizzera e Gran Bretagna.
 
Vanno un po' meglio le attività di private equity, che pesano per lo 0,33% del Pil a confronto con lo 0,72% della Francia e l'1,05% del Regno Unito. Insomma il mercato finanziario è pressochè ininfluente per la crescita economica del paese.
 
Qualcuno potrà obiettare che è meglio così, che la bassa esposizione italiana alla finanza ha permesso al paese di salvarsi dalle devastazioni procurate all'estero. Ci saremo anche ben difesi dalla speculazione, ma ne subiamo gli effetti collaterali nel lungo periodo, in termini di minore crescita economica, di un tessuto produttivo con pochi big players e di un maggiore indebitamento delle nostre imprese.
 
Secondo una stima di The European House / Ambrosetti, il rapporto tra debito finanziario e patrimonio netto in Italia è pari al 58%, contro una media Ue del 47%.
 
Il risultato è che da noi le imprese si sono sempre finanziate direttamente in banca, bypassando i mercati finanziari.
 
E questo non va bene per due validi motivi.
Se arrivasse una crisi creditizia (molto frequenti) le imprese si ritroverebbero in una situazione estremamente complicata, e in secondo luogo, dipendendo dagli approviggionamenti allo sportello, le aziende italiane non possiedono capitale sufficiente e si ritrovano con più debiti.
 
Inoltre le nuove direttive di Basilea 3 costringeranno le banche ad accantonare maggiore capitale per rafforzare il patrimonio di vigilanza con il rischio di stringere i rubinetti dell'erogazione alle imprese.
 
Insomma un po' di finanza, se somministrata con le giuste dosi, è necessaria e non può che apportare benefici al sistema economico.
 
LE CAUSE DEL NANISMO FINANZIARIO
 
Un'altra ragionevole osservazione potrebbe essere che le frequenti crisi degli ultimi anni e la bassa produttività dell'Italia hanno frenato il ricorso ai mercati finanziari da parte delle imprese, ma bisogna riconoscere che la frequente rinuncia a quotarsi e raccogliere capitali comporta un ostacolo alla crescita delle aziende stesse. E' come un cane che si morde la coda.
 
Borsa Italiana ha cercato di venire incontro al problema creando due listini ad hoc per le Pmi: il Mac e l'Aim, abbassando i costi di quotazione e riducendo gli obblighi burocratici. Eppure le piccole e medie aziende che hanno approfittato dell'occasione sono ancora poche.
 
Un motivo potrebbe essere la tradizionale struttura delle aziende italiane, tipicamente a carattere familiare e quindi poco incline ad aprirsi agli investitori esterni che potrebbero influire sulla gestione aziendale di figli e nipoti.
Senza considerare l'impatto dell'evasione fiscale.
 
Chi ha poi problemi con il Fisco, difficilmente si affaccia ai mercati finanziari.
In tutto ciò il grande assente è sempre uno: lo Stato italiano.
 
Da anni nel nostro paese non si discute più di rilancio economico e manca un vero piano industriale condiviso, di medio-lungo termine, evitando le classiche toppe e ricette brevi per un ipotetico ritorno elettorale.
 
Basta considerare che gli interessi dei finanziamenti bancari sono deducibili fiscalmente, mentre non lo sono i costi sostenuti per la collocazione in Borsa, per cui per le aziende è più conveniente indebitarsi che quotarsi sui listini.
 
Svantaggi fiscali ci sono anche per i mercati obbligazionari: il pagamento degli interessi sui bond emessi da società non quotate in Borsa è soggetto a imposta sostitutiva, per cui per le aziende fuori dai mercati è più difficile emettere obbligazioni.
 
Basterebbe una politica che si occupasse del problema degli incentivi fiscali e che aiutasse la Borsa, la finanza italiana e le imprese a liberarsi della cronica incapacità di crescere.
 
Ma questo è un altro discorso.

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