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Il lungo addio di BoJo

Il premier che non sapeva tenere una posizione sfugge a un voto di sfiducia dei parlamentari del suo partito ma il suo destino politico appare segnato

 

E così, Boris Johnson è riuscito a sopravvivere al voto di sfiducia del suo partito, tenutosi ieri dopo che sono state raggiunte adesioni pari al 15% dei parlamentari conservatori. A suo favore, 211 voti; contro, ben 148. I motivi dell’iniziativa sono riconducibili, sia pure in modo non esclusivo, alla irritazione per le violazioni al lockdown compiute da Johnson e staff, e per le quali l’ex sindaco di Londra entra nella storia come il primo premier in carica ad essere stato sanzionato.

Nella storia, dalla porta sbagliata

Johnson farà storia anche per essere riuscito a far perdere ai Tory alcuni seggi che di fatto erano più che blindati, sin dall’epoca vittoriana. I Conservatori arrancano ampiamente nei sondaggi dietro i pur non irresistibili laburisti. Certo, veniamo da due anni terribili e ancora non si vede uscita: pandemia (ora in pausa), guerra sul suolo europeo, oggi forte inflazione e, per il Regno Unito, condizioni di incipiente stagflazione che rischiano di certificarne la condizione di malato d’Europa, anche se qui l’Italia gioca da sempre un campionato a sé, Draghi o no.

Ma Johnson è artefice esclusivo di uno stile di governo di rara sciatteria ed erraticità, per non dire altro. O forse protervia, per la tendenza a pensarsi al di sopra delle norme e delle regole. Ma sarei più incline alla prima interpretazione: non mi pare un Marchese del Grillo d’Oltremanica. Il suo ex consigliere, Dominic Cummings, uno straniato e straniante Rasputin defenestrato si dice per congiura di palazzo ordita da Carrie Symonds, ultima signora Johnson, lo disprezza in modo viscerale, e lo definisce un “carrello della spesa che sbatte da una parte all’altra”.

In effetti, la rapidità con cui Johnson cambia idee e posizioni pare essere l’immagine speculare della trasandatezza sui principi. Più volte gli ho attribuito uno stile di governo “italiano”, nel senso di amorale, utilitaristico ed esasperatamente tattico. Johnson è un populista che la realtà sta demolendo, e questa è la sua scontata nemesi, a partire dalla Brexit.

Il Trattato e l’inchiostro simpatico

Ad esempio, col Trattato di ritiro, che Johnson ha firmato ma evidentemente non letto, oppure ha firmato con malizia o dolo, sapendo che avrebbe dovuto stracciarlo oppure finire a fare il “vassallo” della Ue; accusa che lui e il suo gruppo hanno mosso a Theresa May durante il governo di colei che è subentrata a David Cameron e che si è quasi subito resa conto che la Brexit sarebbe stata questione intrattabile, anche se all’inizio non faceva che ripetere come un robot che “Brexit means Brexit“, non sapendo neppure lei cosa potesse significare.

Anche May superò un voto di fiducia dei parlamentari conservatori, innescato da colleghi che la accusavano di aver tradito il referendum sulla Brexit. Fu una vittoria inutile, peraltro con percentuali lievemente migliori di quelle di Johnson. Ma il suo destino politico era ormai segnato: dalle aporie della Brexit, per essere precisi.

A capo del partito arrivò l’ex sindaco di Londra che, promettendo un’uscita chiara e netta (clean break), portò i Tory a un trionfo elettorale, con una maggioranza di 80 seggi. Seguì il famoso trattato di ritiro dalla Ue, scritto con inchiostro simpatico oppure con la trasandatezza (o il cinismo) che caratterizza il personaggio.

Ma il trionfo elettorale di Johnson aveva un qualcosa di storico nella conquista di collegi che erano riserva del Labour, poveri e deindustrializzati, soprattutto dell’Inghilterra del Nord. Nasceva il famoso “livellamento verso l’alto” che ad oggi resta una incompiuta tra le chiacchiere, ma era anche un allontanamento dalla dottrina dello “stato minimo” o comunque “compatto”, con bassa spesa pubblica e bassa pressione fiscale. Ma la sensibilità sociale costa.

I Tory cambiavano pelle o era solo una cinica tattica? Come che sia, i Brexiter tornavano a manifestare frustrazione per il Protocollo dell’Irlanda del Nord, quello che tiene la regione nel mercato unico europeo e prevede controlli doganali nei porti sul Mar d’Irlanda. Quella che Johnson e sodali un tempo definivano svendita dell’integrità nazionale e vassallaggio alla Ue.

Molti nemici, molto caos

Seguì la costante minaccia di sospendere quella parte del Trattato di Ritiro, e tensioni con la Ue. I nemici interni si moltiplicavano e Johnson si barcamenava per accontentare tutti. Oggi siamo al punto che il Regno Unito non applica controlli doganali sulle importazioni dalla Ue mentre l’opposto avviene regolarmente. Jacob Rees-Mogg, altro arci-Brexiter posto a capo del dipartimento delle “opportunità della Brexit” (sic), non se ne fa un problema: per lui, anzi, meglio rimuovere le “pastoie burocratiche” alle importazioni, soprattutto ora che c’è inflazione. Quindi, dentro tutto senza verifiche e si procede.

Ma i Tories sono entrati in subbuglio anche per le mosse del Cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, che ha deciso di gestire il dopo-pandemia nell’unico modo possibile: alzando alcune tasse. Lo ha fatto in modo piuttosto sghembo, agendo soprattutto sui contributi alla National Insurance, che riducono stipendi non certo da ricchi e finendo dritto contro la grande inflazione di questo periodo. Ma per i teorici dello “stato minimo”, leggere ogni giorno che la pressione fiscale è “ai massimi degli ultimi 50 anni”, è un trauma insostenibile. E tutto senza aver ancora messo mano al famoso livellamento verso l’alto delle aree depresse. O, in alcuni casi, ridimensionando grandi progetti infrastrutturali, reali e onirici.

La situazione, sul versante fiscale, è peggiorata quando Sunak e Johnson, dopo aver escluso inorriditi di poter applicare una tassa sugli extraprofitti delle imprese energetiche per contribuire a finanziare l’aiuto a fasce ampie e crescenti di popolazione che stanno cadendo in povertà, hanno ceduto alla pressione. Salvo mettere in piedi un improbabile e fiscalmente costoso accrocchio per premiare gli investimenti energetici. Ma, riflettendo attentamente, qui la scelta era tra extra-profitti e un aumento di altre entrate tributarie. Assai improbabile, per usare un eufemismo, pensare di tagliare una spesa pubblica già relativamente bassa, in uno scenario del genere.

L’equivoco di fondo: il peso dello stato

Per farla breve, un governo caratterizzato da un equivoco di fondo: il ruolo dello stato e la sua dimensione rispetto alla tradizione del partito che lo esprime; e un premier che oscilla tra posizioni difficilmente conciliabili, o meglio che pare proprio Tarzan tra una liana e l’altra.

Pur con tutte le attenuanti pesanti di questi due anni e mezzo, non si sfugge alla lezione: quando si cerca di voler tenere assieme istanze poco o per nulla conciliabili, per non parlare del vincolo di realtà, questi sono i risultati. Johnson esce da questo voto come ci è arrivato: azzoppato. Da se stesso, soprattutto. Anche considerando la wildcard della guerra, dove si muove in modo molto assertivo quasi facendo dimenticare che Londra era per i russi soprattutto la “lavatrice sul Tamigi“, è difficile che Johnson possa tornare in sella e cambiare quella che pare una traiettoria declinante ben definita.

Chiunque gli succeda, prima o poi, dovrà fare i conti con la mutazione che Johnson ha imposto al partito, per scelta o per caso. Dopo la “vittoria” di ieri, Johnson ha detto che il partito sarebbe tornato alle tradizioni, fatte di riforme dal lato dell’offerta. Promessa che durerà assai poco, e peraltro appare inadeguata alla situazione storica corrente. Per tacere dell’altro evergreen, il taglio delle tasse.

Un’anatra azzoppata che proseguirà furiosamente a rimescolare il mazzo di carte, promuovendo e rimuovendo alleati e avversari, con gli occhi alla scadenza naturale di questo parlamento, il 2024. Tutto molto umano, certamente. Ma il peccato originale che ha portato il Regno Unito sin qui, lo scoppio di populismo che voleva liberarsi della Ue e far piovere soldi sulla popolazione, continuerà a perseguitare il paese, con o senza un istrionico premier che si credeva Churchill.

Johnson ci ha ampiamente messo di suo, in questo caos di una politica “pragmatica” che è per lo più amorale, ma è difficile sfuggire alla conclusione che la complessità dei nostri giorni è tale da fare a pezzi o comunque sottoporre a feroci torsioni ogni tentativo di sistematizzare delle linee guida “ideologiche”.

Aumentano i problemi complessi, cresce il populismo delle soluzioni semplici e ansiolitiche, la realtà si vendica. Lo schema è tutto qui, non da oggi e non solo in Regno Unito. E ora, che la guerra civile dei Tories prosegua.

Foto: Wikipedia

Questo articolo è stato pubblicato qui

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