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Il lavoro ai tempi del neoliberismo

Il mondo del lavoro nei tempi contemporanei sta conoscendo una fase di bassa marea. C’è chi imputa alla maggiore tecnologizzazione o alla delocalizzazione il calo dell’occupazione in molti settori dell’economia occidentale come quello manifatturiero. Altri sono fautori di chiusura degli Stati nazionali attraverso barriere all’entrata di merci e persone provenienti da paesi stranieri per rilanciare l’occupazione interna.


In realtà, nessuna di queste spiegazioni è sufficiente in sé: la realtà delle cose è il frutto della sovrapposizione di più elementi. In maniera fondamentale, è opportuno sottolineare lo svilimento dell’elemento lavoro nel dibattito politico contemporaneo, fatto confermato dalle recenti iniziative legislative e proposte politiche portate avanti nel nostro Paese.

Gli effetti dell’ideologia neoliberista

L’ideologia neoliberista, sulla scia delle teorie di Walras sul “prezzo giusto”, ha strutturato una peculiare idea di “lavoro”.
In partenza, è bene definirlo, il lavoro deve essere un’attività di natura economica: il volontariato, ad esempio, non è lavoro.

Da questa premesse, tuttavia, l’ideologia neoliberista ha derivato l’idea che il lavoro sia qualsiasi prestazione richiesta che dia luogo a un’attività retribuita dopo un determinato impiego di tempo: ciò rappresenta un tipo di pensiero molto distorsivo, secondo il quale anche una grande quantità di attività illegali, socialmente inaccettabili o degradanti per l’individuo che le svolge (come la prostituzione) potrebbero essere definiti lavori dando retta al mito fondativo dell’homo oeconomicus.

È necessario dunque iniziare escludendo le attività illegali dalla sfera del lavoro. Inoltre, al suo interno bisogna perimetrare anche la produzione di servizi e le attività che hanno utilità sociale.

Utilità sociale, produzione di valore economico e legalità sono tre presupposti imprescindibili per definire un’attività lavorativa. Il discorso sull’utilità sociale è molto variegato e frastagliato, e ciò dà luogo a una gradazione interna al mondo del lavoro che, talvolta, si riflette sul prezzo. Ciò non esaurisce però la scala delle retribuzioni: un calciatore, ad esempio, non è retribuito in base all’utilità sociale del suo lavoro, ma piuttosto sulla base di una competizione volta ad accaparrarsi le quote di un mercato molto pieno di attori interessati, dagli sponsor alle televisioni.

Alcune produzioni, nel passato, erano molto più apprezzate di oggi, o magari adesso sono addirittura scomparse: i prodotti conoscono variazioni di gradazione nel tempo, e a seconda delle tendenze temporali prodotti caduti temporaneamente in disuso possono mano a mano rivalutarsi più si restringe il campo di coloro che sono in grado di realizzarli.

Tipica dell’ideologia neoliberista è poi la reiterazione del “mito meritocratico”, che crea un sostanziale paradosso: la realizzazione del cittadino attraverso la dedizione lavorativa è depotenziata nella società degli “uomini economici”, ma al tempo stesso quest’ultima fonda la sua presunta democraticità sul mito di una meritocrazia che nasce su presupposti astratti.

Come ha fatto notare Andrea Zhok, infatti, certamente “premiare il merito è socialmente utile. Questo punto comincia a diradare la nebbia circa il senso degli appelli al ‘merito’. ll merito, quale che sia, non inerisce al soggetto meritevole, ma dipende dalla relazione tra tale soggetto e altri soggetti verso cui è esso meritevole. L’idea mitologica del ‘merito’ come qualità intrinseca deve essere sostituito dall’idea del merito come qualità relazionale. Non è l’intrinseca straordinarietà di una facoltà a rappresentare di per sé un ‘merito’“: quest’ultima concezione è figlia del radicamento dell’ideologia neoliberista nelle fondamenta della cultura calvinista su cui si basa ampiamente il pensiero economico da essa propugnata.

La narrazione della “fine del lavoro”, funzionale all’ideologia neoliberista

La “disoccupazione tecnologica” e la delocalizzazione possono aver pesato sul calo dei livelli di occupazione, ma sono fattori che vanno pesati sulla base delle circostanze. Nel panorama politico italiano, su diversi fronti (da Forza Italia al Movimento Cinque Stelle) è stata teorizzata la “fine del lavoro” e la proposta di slegare il reddito da quest’ultimo attraverso l’introduzione del reddito di cittadinanza è diventata, in ultima istanza, realtà: oggigiorno, però, automazione e robotica non sono in grado di produrre qualsiasi tipo di merci, si è molto lontani dal momento in cui il ciclo integrale realizzerà tutto ciò che all’uomo è necessario.

Inoltre, se una serie di lavorazioni può essere realizzata per via robotica, non è detto che ciò sia economicamente conveniente. Ci sono poi una serie di produzioni o servizi (ad esempio la microchirurgia) che richiedono una compenetrazione tra azione automatizzata e governance umana. I robot non sono ancora in grado di compiere lavori di alta precisione come la produzione di orologi o di materiali ottici.

II lavoro è per sua natura inestinguibile: l’uomo potrebbe essere in grado di produrre in futuro tutto ciò che oggi è necessario, ma da qua al futuro sicuramente saranno insorti nuovi bisogni e sarà necessaria un’attività di ricerca costante.
Alimentare i miti sulla devalorizzazione del lavoro contraddice l’intuizione di Marx, secondo cui la ricchezza rimane tale solo in potenza fino a che non interviene il lavoro umano per renderla fruibile. La visione sull’utilità sociale del lavoro fonda in maniera determinante la cittadinanza. “L’aria della città rende liberi”, si diceva nel tardo Medioevo; la Costituzione italiana stessa basa il lavoro come fondamento imprescindibile del suo ordinamento. Dopo la ribellione dell’élite, l’attacco alla civiltà del lavoro è stato affiancato da una narrazione volta allo screditamento del lavoro.

La controrivoluzione neoliberista non forgia lavoratori e cittadini, ma utenti, consumatori. Il capitale è cresciuto esponenzialmente rispetto al lavoro nel mondo della produzione. La nuova vulgata ha appiattito la concezione del lavoro, svuotandolo delle sue qualità intrinseche. Essa ha esercitato un’influenza tanto profonda da conquistare anche ampi strati della Sinistra: dal Partito Democratico italiano ai socialisti francesi, passando per i democratici USA, molte formazioni si sono convertite al neoliberismo e hanno tolto la piena occupazione dai loro obiettivi primari.

La svalutazione del lavoro è un fenomeno squisitamente occidentale (USA, Europa, Giappone), ma a ciò si accompagna un’acquisizione di maggiore dignità del lavoro in altre aree del mondo: basti pensare al ruolo centrale assegnato al rafforzamento dell’elemento lavoro nei grandi progetti economici e strategici della Repubblica Popolare Cinese.

Il ruolo del lavoro nella società contemporanea

Nella civiltà occidentale, sono il consumo e il divertimento, e non il prodotto dell’attività lavorativa a rappresentare la forma di maggiore realizzazione individuale. Certi settori della Sinistra radicale, un tempo imperniati sulla classe operaia, sono arrivati ad aderire all’ideologia della non necessarietà del lavoro e a propugnare l’introduzione di un reddito sganciato dal fattore lavorativo (sul tema suggeriamo un denso e approfondito pezzo di InfoAut qui linkato).
Negando l’idea di lavoro si sgancia dall’attività lavorativa la concezione di “cittadinanza”, facendo venire meno anche la prospettiva di una compiuta mobilità sociale. Con l’appiattimento delle identità la massa di cittadini si trasforma nel consumatore ideale della narrazione neoliberista, consumando ricchezza senza produrne, o apre la strada alla rivolta populista, entro la quale la connotazione di classe o cittadinanza è del tutto assente, annacquata nell’indistinto “popolo”.

Accompagnare l’esaltazione del “lavoro senza reddito”, dagli stage a certe forme di volontariato, passando per l’alternanza scuola del lavoro all’elemosina del reddito di cittadinanza rappresenta una forma di sordità culturale e politica. Senza mitizzare il lavoro, serve rendersi conto della realtà dei fatti: il lavoro, pieno del suo substrato sociale e culturale, rappresenta una componente imprescindibile della società e in molti casi può contribuire alla gratificazione e alla valorizzazione dell’individuo. In questo campo hanno presentato visioni, in un certo senso, concordanti sia la teoria economica della sinistra classica (vedasi Karl Polanyi, pensatore fondamentale e dalla profonda attualità) che la dottrina sociale della Chiesa, arrivata a produrre il concetto di “umanesimo integrale”, il laburismo evangelico di Giorgio La Pira e il pensiero della gratificazione di Dio attraverso il lavoro di San Josèmaria Escrivà.

Pur avendo una sua disciplina e una sua durezza, il lavoro libera dai rapporti servili e andrebbe riqualificato, reinventato, ripensato. La battaglia della contemporaneità non dovrà essere rivolta al superamento del lavoro, ma a un suo ripensamento che consenta di mettere al centro la dignità umana come sua componente primaria.

L'articolo Il lavoro ai tempi del neoliberismo proviene da Osservatorio Globalizzazione.

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