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Il futuro compromesso dell’istruzione in Bosnia ed Erzegovina

 

Questa sera a Roma, ai Giardini di piazza Vittorio, viene proiettato un film straordinario. Ha strappato applausi al Festival di Cannes e ha vinto praticamente tutti i premi a disposizione, compreso quello di Amnesty International, alla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro. E, miracolo, ha trovato un distributore per l’Italia, la coraggiosa Kitchenfilm.

Djeca”, di Aida Begic, racconta l’eterno dopoguerra di Sarajevo attraverso le giornate di mera sopravvivenza di due ragazzi resi orfani dai cecchini serbo-bosniaci nell’assedio alla capitale del 1992-95.

La ragazza, Rahima, maggiorenne, interpretata da una commovente Marija Pikic, si barcamena lavorando in un locale (un risto-disco-bordello gestito da un boss) affinché non le tolgano l’affido del fratellino e lui possa proseguire gli studi.

 

Il ragazzino, Nedim, frequenta malvolentieri la scuola, dove subisce quotidianamente attacchi di bullismo da una gang il cui capo è il figlio di un ministro impegnato nelle ristrutturazioni e nella svendita del patrimonio pubblico. Il figlio del politico è l’eroe, l’orfano è il figlio del passato, della guerra, di un intralcio della memoria da rimuovere al più presto.

Luca Leone, che conosce la Bosnia come pochi altri, sta per pubblicare un libro sul sistema educativo del paese. Le sue pagine raccontano qualcosa di persino peggiore di “Djeca”: l’applicazione della formula orwelliana “chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”, attraverso il tentativo di separare e segregare l’istruzione sulla base di linee nazional-religiose(rifiuto l’infondata espressione “etnico-religiose”), impartendo attraverso le cosiddette “materie nazionali” una storia “id-entitaria” che formi, nel gioco di parole, l’identità propria di una delle tre Entità dello stato della Bosnia Erzegovina.

Nell’Erzegovina, l’Entità croata, per esempio, esistono oltre 50 scuole in cui alunni e insegnanti vivono in sistemi educativi a parte: nell’apartheid erzegovese, gli studenti cattolici e musulmani sono destinati a non incontrarsi mai. Nella Republika Srpska, l’entità dei serbi di Bosnia, il problema neanche si pone: il programma è uno solo e pazienza per le famiglie musulmane che si sono ostinate a rimanere o a ritornare, sopravvissute alla pulizia etnica. Nella capitale Sarajevo, proliferano gli istituti privati generosamente finanziati dall’estero, pronti a formare il “buon cattolico” e, sempre di più, il “buon musulmano”.

La perdita è triplice: di una cultura e di un alfabeto comuni, ma soprattutto della possibilità di crescere insieme. Il rischio di perpetuare una società divisa e aggressiva, in cui si esce dalla scuola non conoscendo l’altro, o conoscendolo attraverso un insegnamento che lo descrive come il tuo aggressore, è elevato.

Come si aspetta chi conosce bene in che modo Luca Leone racconta la Bosnia, anche in questo libro, dopo pagine e pagine preoccupate e rabbiose, troviamo le buone pratiche, gli uomini e le donne di straordinaria abnegazione e fatica che sanno bene quanto determinante sia, per il futuro del paese, di qualsiasi paese, una buona istruzione. Ne era così convinto il generale serbo ed eroe sarajevese Jovan Divjak, che nell’immediato dopoguerra fondò un’associazione che si chiamava “L’istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina”.

Accanto a lui, il vescovo ausiliare di Sarajevo Pero Sudar, promotore di istituti privati non segregativi e tante altre storie di “resistenti del futuro”, come la Scuola elementare per la musica e il balletto “Novo Sarajevo” o i giovani di “Odisej” a Bratunac.

E “Tuzlanska Amika”, che si è caricata sulle spalle migliaia di giovani vite. È bello sapere che quest’associazione continua a esistere e a lavorare e che c’è chi dall’Italia la sostiene.

Come Macondo Tre. Alla vigilia del diciassettesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, non nutro molta speranza che se ne ricordino in molti: gli anniversari da ricordare sono quelli tondi.

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