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Il cattivo Tavares e la pessima politica

Per Stellantis, in grave crisi americana, l'Italia è un'appendice alla periferia dell'impero. Alla politica, il cui cortissimo respiro è incompatibile con le tendenze lunghe globali che ci hanno condotto qui, resta solo la sceneggiata

L’amministratore delegato di StellantisCarlos Tavares, ai margini del Salone di Parigi ha conversato con i giornalisti. Ai quali ha spiegato alcune cose, almeno dal suo angolo visuale strategico. In primo luogo, che non si può restare a metà del guado tra elettrico e termico, perché questo ucciderebbe i costruttori. Questo è un suo antico punto, non privo di fondamento, a cui Stellantis ha risposto tentando di accentuare la modularità e fungibilità parziale delle piattaforme.

Due mondi, un enorme costo

Tenere in parallelo investimenti sui due mondi rischia di affossare la redditività, in effetti. E quindi, che fare? Sinora, Tavares ha spinto sulla richiesta di soldi pubblici per compensare il quantum di costi in più a carico dei costruttori. Forse la richiesta gli è venuta perché, come sappiamo, viviamo nella guerra mondiale dei sussidi, ma questo tipo di richieste sta arrivando a scontrarsi con le evidenti ristrettezze dei bilanci pubblici, non solo in Ue.

Poi, Stellantis ha un enorme problema: gli Stati Uniti. Un problema fatto di accumulo di scorte e forte calo della domanda, con un ammodernamento della linea di prodotti e politiche di prezzo che, dopo aver premiato l’azione Stellantis, che pareva aver trovato la pietra filosofale della redditività, è finito in faccia al costruttore e alla sua arroganza. Si trattava solo, in realtà, della massimizzazione della marginalità di breve termine, una di quelle cose che spesso si rivelano l’antitesi della generazione di valore. E infatti.

I numeri sono implacabili nel descrivere il disastro americano: tra il 2019 e il 2024, con un’inflazione cresciuta del 23 per cento, i listini Stellantis sono aumentati del 50 per cento. È stato bello finché è durato. Poi, l’indebolimento della domanda, la resistenza a rivedere i listini all’ingiù e i piazzali dei concessionari con l’alta marea di auto invendute. Altri numeri: secondo dati dei concessionari, servono 131 giorni di domanda per smaltire le scorte del Ram 1500 pickup, 41 giorni più del rivale prossimo, la Chevrolet Silverado. La Jeep Wagoneer ha scorte nei piazzali per 137 giorni di domanda, 22 giorni più della rivale Ford Expedition.

Back to Earth – Fonte

Servono, quindi, nei prossimi mesi, forti sconti per smaltire le scorte, e blocchi di produzione. Passata questa costosa emergenza, Stellantis dovrà capire se quattro marchi (Jeep, Ram, Dodge, Chrysler) sono troppi e come realizzare sinergie di design, marketing e piattaforme. Ma sarà solo il preview di un processo analogo, che avverrà in Europa.

 

Il destino è in America

Ora, occorre guardare in faccia la realtà: la sopravvivenza di Stellantis, nella sua configurazione attuale, si giocherà nei prossimi mesi e anni sul tentativo di raddrizzare la situazione americana. Lì c’è la sopravvivenza o il suo contrario. Forse, all’uscita dal tunnel, Stellantis sarà molto più piccola e con molti meno marchi. Un mercato come quello italiano, con rispetto parlando, è un’appendice dell’impero, di quelle che alla fine si scopre si possono rimuovere in laparoscopia.

E del resto, Tavares sa far di conto:

Se i cinesi prendono il 10 per cento delle quote di mercato in Europa al termine della loro offensiva, questo vuol dire che peseranno per 1,5 milioni di auto. Questo rappresenta sette fabbriche di assemblaggio. I costruttori europei dovranno allora sia chiudere, sia trasferirle ai cinesi.

La sindrome Volkswagen, per essere sintetici.

 

A nulla quindi servono le sceneggiate di buona parte della classe politica italiana, che ha convocato Tavares per sbraitargli contro, né le solite frasi fatte su “la Fiat ha preso miliardi dall’Italia e ora guarda che ingrati”. So che per qualcuno sarà scioccante, ma qui non stiamo parlando di Fiat ma di un altro mondo. Quindi, i “dossier” sugli aiuti dati negli scorsi decenni a Torino lasciano il tempo che trovano. E non illudetevi: anche chi è azionista pubblico di Stellantis non se la passa bene. Forse potrà solo ritardare la mannaia, ma non è affatto certo.

Piuttosto, possiamo solo prendere atto che, in questi decenni, un sistema paese del tutto disfunzionale non ha fatto nulla per creare le condizioni per non aver tutte le uova in un solo paniere. A poco servono quindi, le rodomontate di ministri pro tempore, che nei giorni pari minacciano di fare entrare i cinesi (meglio se in una notte di luna piena, così che tutti possano vedere), ignorando che sarebbero sottrattivi e non additivi sulla forza lavoro, e in quelli dispari si compiacciono perché il messaggio all’incumbent è arrivato forte e chiaro, ora si daranno da fare e la produzione aumenterà. Il milione di veicoli del Signor Bonaventura, praticamente.

 

I tempi della politica

Certo, i parlamentari che hanno rovesciato livore e frustrazione su Tavares (anche giustificati) non sono gli stessi che per omissioni hanno creato le condizioni di cui sopra. E figuriamoci, visti gli orizzonti temporali della politica, non solo italiana. Alla fine, il cerino deve bruciare le dita a qualcuno, e quindi meglio sbraitare e pretendere convocazioni in parlamento, dove magari ci si può abbandonare a reminiscenze su quello che si faceva in un’altra vita (una specie di “momento Nicola Pietrangeli”) oppure cavarsela con un più ruspante “vergogna”, che si porta con tutto.

La vicenda Stellantis incrocia due dimensioni della politica: da un lato la forte miopia, che porta a vivere la frenetica quotidianità fatta di elezioni locali che prepareranno la strada alla Nuova Era, oltre che di comparsate televisive e interviste dal valore segnaletico del nulla e di tutte gli eventi epocali che accadranno nelle successive settimane. Che so, le nomine in Rai o nelle partecipate pubbliche. Dall’altro lato, la necessità imprescindibile di pararsi il culo di fronte all’inevitabile mostrare assertività e dettare le condizioni per pilotare il futuro, in nome del popolo sovrano.

 

Il quale popolo, però, compra sempre meno auto: per motivi demografici ma anche per mutamenti dello stile di vita che interessano chi vive in aree urbane più o meno servite da mezzi collettivi o individuali alternativi. Questo pesa quanto e più dell’elettrificazione.

La mazzata finale arriva con la politica di prezzi dei costruttori, per proteggere i margini spostandosi verso l’alto di gamma o comunque pensando che i sussidi Covid fossero la nuova droga da iniettarsi per rendere la domanda scarsamente elastica al prezzo. Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto di avere un solo uovo nel paniere, il cerchio si chiude. Anche se qualcuno potrebbe opinare che più costruttori avrebbero amplificato il danno, se altamente correlati nel destino della Grande Transizione e della demografia maligna.

L’incrocio di queste due dimensioni produce, indovinate? Il nulla. O meglio, l’attesa di un meteorite telefonato come pochi. La demografia, il sistema paese, l’evoluzione tecnologica sono cose del tutto fuori dalla portata della politica. Della politica di questo tempo e di questo luogo. Che non è solo quella italiana.

 

Dopo di che, Tavares potrà anche dire che ha dato fiducia al management locale americano, sbagliando. Potrà anche abbigliarsi con la più trasparente delle foglie di fico, dicendo che la strada non è solo quella di tagli e chiusure ma anche, ad esempio, “quella della ricerca e sviluppo” (risate da sitcom in sottofondo). Ma temo che la traiettoria sia segnata. Ma non tutto il male viene per nuocere: volete mettere il numero di puntate di talk politici televisivi passate a esecrare e proporre soluzioni miracolose, dai cinesi alla patrimoniale, per tenere in vita l’auto italiana?

Photo by OttavianiCC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Questo articolo è stato pubblicato qui

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