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Il Recovery Lost italiano

Allarmi: l'Italia non ha ancora presentato il Piano di ripresa e resilienza, la maggioranza di governo si squaglia al calore della realtà e si cercano responsabili padri della patria prima dell'implosione finale. E quale sarebbe la notizia?

 

Oggi sui giornali, al culmine di una fase di cottura a fuoco lento, torna l’allarme-Italia. E quale tra i tanti, direte voi? Quello sull’immobilismo italiano rispetto alla presentazione dei programmi per fruire dei fondi europei del Next Generation EU. Ed è subito il ritorno del mefitico laboratorio italiano, con le cavie più nervose del solito.

Ad esempio, su Repubblica oggi c’è un commento di Claudio Tito dal titolo programmatico: “Fondi Ue, a Bruxelles cresce la sfiducia sul piano dell’Italia“. Dove “a Bruxelles” sarebbero spifferi in camera caritatis dalla Commissione. Veri o presunti, originali bruxellesi o prodotti tipici romani per conto terzi ad uso romano. Ma quale sarebbe il problema? Semplice: che i nostri eroi non hanno ancora inviato alla Commissione i Piani di ripresa e resilienza. Come forse ricorderete, l’ultimo grande paese a inviare il proprio è stata la Francia. Ricordate?

Quando ciò accadde, da Roma si manifestò insofferenza e condiscendenza, affermando che comunque avevamo già spennellato le linee-guida in olio su tela, e segnalando che la scadenza di fine gennaio era ancora lontana. Oggi è un po’ meno lontana, diciamo. Il problema, scrive Tito, è sempre quello:

I singoli dicasteri fanno a gara a intestarsi una quota di fondi anziché organizzare progetti in grado di ottenere il via libera della Commissione. E molti ministri puntano l’indice sulla scarsa collaborazione tra la struttura degli Affari europei e quella dell’Economia. Non si tratta dei rapporti tra i due ministri, Amendola e Gualtieri, ma degli apparati poco propensi a cedere quote di competenze e quindi di potere.

Premesso che una “cabina di regia” (perdonatemi, odio questa espressione ma altre non me vengono) serve necessariamente, il problema mi pare non sia neppure quello ma, al solito, il grado di efficacia delle misure. E quello, purtroppo, tendiamo a scoprirlo solo a danno accaduto. Cioè a distanza di lustri e decenni.

Nel frattempo, nella cosiddetta maggioranza e tra la cosiddetta opposizione, aumentano i mal di pancia e le manovre si moltiplicano, con puntuale ricaduta nella buca delle lettere dei giornali. Come approvare la legge di Bilancio senza finire nel temuto (non capisco perché) esercizio provvisorio? Lo so, ogni anno la menata resta uguale a se stessa ma quest’anno siamo in modalità “fate presto”, e giornali e telegiornali sono impegnatissimi a esecrare il ritardo con cui i fondi del Recovery Fund vengono presi in ostaggio da Ungheria e Polonia, dietro le quali si staglia, per motivi completamente differenti, il blocco dei frugali europei.

Nel senso, ad esempio, che il premier olandese Mark Rutte, quello che gli italiani hanno messo in cima alla ormai lunga lista di nemici, è diventato un paladino dello stato di diritto, contro le pulsioni illiberali di Budapest e Varsavia. Non ho alcun motivo per dubitare degli ideali dell’olandese. Diciamo che, nel caso di specie, potrebbe unire i principi democratici liberali all’insofferenza con cui il suo gruppo di riferimento guarda da sempre al Recovery Fund ed ai maggiori destinatari.

A Roma, si diceva, intanto fervono manovre e manovrette dei nipotini falliti di Machiavelli. Che altro non sono che spasmi di falliti ad “uso” di un paese fallito. Ad esempio, come ridurre il potere dei pentastellati e neutralizzarne l’inesorabile decomposizione? E con chi al timone dell’esecutivo? L’Avvocato del Popolo che tanto bene ha saputo capitalizzare sul persistente fallimento di sistema e sui veti incrociati? Oppure altri? Ma, se altri, un politico con profilo terzista il giusto, da “solidarietà nazionale”, oppure passare direttamente a Mario Draghi, per dare modo alle termiti di riposare un giro, riattaccare i pezzi del giocattolo Italia e poi tornare a banchettare? Ah, saperlo.

Per il momento sappiamo che, proprio per i motivi detti sopra, nel ruolo di responsabile padre della patria è stato rispolverato Silvio Berlusconi. Che sarebbe disponibile a “dare una mano” (per puro senso di responsabilità, sia chiaro, perché “l’Italia è il paese che amo”) alla legge di Bilancio, soprattutto al Senato. Per averne cosa, in cambio? Non siamo venali, suvvia. Diciamo che “il sistema” è già da tempo all’opera per proteggere Mediaset dalle brame degli agenti francesi. Che, come ci informa il Copasir, hanno in corso un diabolico piano per comprarsi l’Italia.

Urge quindi preservare il patrimonio nazionale di Mediaset, per evitare che i telespettatori italiani siano rapiti e portati (pure loro) nella Valle della Loira, come i turisti internazionali con Alitalia. Credo che il patriottico arrocco a questo giro potrà andare a buon fine, e che nulla c’entri il senso di responsabilità di Berlusconi. Sono tuttavia preoccupato per quello che potrà accadere se (quando) scopriremo che Mediaset non ha proprio le forze per restare da sola, nel panorama globalizzato dei media. In quel caso, non preoccupatevi: qualche “Patrimonio destinato” (letteralmente) di CDP potrà essere mobilitato per difendere il nostro patrimonio culturale, D’Urso compresa.

Quindi no, Silvio Berlusconi non opera per tornaconto personale. A verbale.

Poi ci sono gli spasmi del Pd, il partito che sussurrava ai grillini e che sta finendo come loro, a botte di populismo frammisto alla solita indigeribile superiorità morale che da sempre caratterizza generazioni di progressisti di quelle parti. Ad esempio, la richiesta ossessiva di attivare il MES pandemico, spalleggiata attivamente da esponenti di Forza Italia, nel pieno del loro moto di responsabilità alta e nobile. Il segretario Dem, Nicola Zingaretti, si è un po’ ricomposto rispetto alla trance agonistica con cui presentava i fondi del MES come una sorta di vaccino. Forse quello che, assieme ai posti letto in terapia intensiva, stampa anche medici e infermieri. E oplà!

Confesso che non mi è chiaro se questa richiesta ossessiva derivi dal desiderio di mettersi, in un modo o nell’altro, una qualche forma di controllo esterno in casa, sapendo che il paese collasserà alla prima occasione utile. Magari dopo le festanti riaperture di Natale, caldeggiate dalla pro loco dei governatori regionali, e dopo le migliaia di morti aggiuntivi che ciò causerà entro febbraio. Oppure se tale richiesta è in realtà una astutissima mossa per fare implodere i grillini nelle loro contraddizioni. Boh.

Resta il fatto che, allo stato, non abbiamo il Piano di ripresa e resilienza ma passiamo le giornate a esecrare ungheresi e polacchi (i cui governi mi causano l’orticaria, sia chiaro), oltre che a invocare, rigorosi e puntuti, “la fine della regola dell’unanimità”. Quella che va combattuta quando devono pioverci in testa decine di miliardi ma preservata quando “i burocrati di Bruxelles” (che in realtà sono i capi di stato e di governo) stanno per decidere modi per “dirci cosa fare a casa nostra”. Quanti anni avete, una dozzina? Meno?

Quindi, per farvela breve, sì: questa è solo l’ennesima manifestazione di crisi sistemica italiana. Un elettorato che produce eletti all’altezza non solo e non tanto del proprio analfabetismo funzionale ma anche dell’orizzonte spazio-temporale prediletto dalla maggioranza degli italiani: la soglia di casa propria. E gli altri si fottano.

Ma non temete: arriverà il Recovery Fund, (o Found, come dicono i cercatori che hanno studiato inglese a Colleferro), e con esso attueremo il Rinascimento italiano quattropuntozero. O almeno, per qualche anno ancora, avremo carburante per continuare a distribuire mance di vario tipo. Nel frattempo, per prepararsi al “dopo”, che poi sarebbe il momento in cui si consuntiva e si realizza che i nostri investimenti tendono a distruggere risorse fiscali, e la Recovery è lost, oltre che per non perdere l’abitudine alle scorciatoie, possiamo sempre dibattere furiosamente sulla cancellazione del debito. Il tempo vola, quando si è falliti.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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