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Il Maggio francese e le nuove generazioni

Il “Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni” è un classico di Raoul Vaneigem *, intellettuale francese capofila negli avvenimenti del ’68 (Castelvecchi 2006, Massari Editore 2004).

La prima pubblicazione di questo saggio risale al 1967, alla vigilia del famosissimo Maggio francese. Già all’inizio dell’opera Raoul Vaneigem rivela la sua natura di filosofo atipico e afferma che “ci sono più verità in ventiquattr’ore della vita di un uomo che in tutte le filosofie”. Del resto la vita reale smaschera le costrizioni che umiliano, i dirigenti che tramano e ingannano, e le seduzioni linguistiche e mediatiche che predispongono le persone alla passività e all’individualismo egoista.

Per il filosofo di origine belga la società occidentale capitalista è “fondata su uno “scambio” permanente di umiliazioni e di attitudini aggressive, l’economia della vita quotidiana cela una tecnica di usura, questa stessa bersaglio del “dono” di distruzione che contraddittoriamente suscita”. I giovani del Sessantotto non volevano “un mondo dove la garanzia di non morire di fame si scambia contro il rischio di morire di noia”. Invece, i giovani di oggi farebbero carte false per ottenere un misero posto da lavoratore alienato o sfruttato, pur di avere un posto di lavoro duraturo. Forse una nuova rivoluzione non è ancora nata perché i giovani hanno imparato a essere meno impulsivi e a godersi la giovinezza senza scadere nella violenza (individuale e di gruppo).

Però quando il lavoro è sottopagato, come accade spesso per il lavoro intellettuale in Italia, gli imprenditori non si rendono conto che il lavoro imposto alle persone servili e malamente retribuite, sebbene sembri costare poco, “è in definitiva il più caro di tutti. Una persona che non può acquistare proprietà, non può avere altro interesse che quello di mangiare il più possibile e di lavorare il meno possibile” (Adam Smith). Purtroppo “l’orgoglio dell’uomo fa sì che egli ami dominare e niente lo mortifica tanto quanto l’essere costretto ad abbassarsi a persuadere i suo inferiori” (Adam Smith, “La ricchezza delle nazioni”, Utet, 1975-1996, p. 514). Inoltre l’enorme tassazione italiana del lavoro impedisce l’inserimento lavorativo dei giovani e l’innovazione legata alle nuove leve di professionisti: le “imposte, quando hanno raggiunto un certo ammontare, sono una maledizione uguale all’aridità del suolo e all’inclemenza del cielo” (Adam Smith, p. 596).

Probabilmente uno dei modi per ricreare l’economia è quello di sviluppare l’economia di prossimità per bilanciare gli effetti della globalizzazione estrema e della finanza d’azzardo che scommette sui derivati, sui titoli pubblici e sulle materie prime. Per fare questo si potrebbero creare delle “monete aziendali”, cioè dei buoni sconto simili a quelli utilizzati nei supermercati. Questi buoni potrebbero essere poi scambiati dai cittadini e anche dalle piccole e grandi aziende.

Comunque la storia dimostra che le rivoluzioni più significative sono venute dagli studenti, “dai piccoli artigiani, dalle categorie privilegiate o dai disoccupati, non dagli operai massacrati” dalla fatica. E bisogna sottolineare che dal politico al banchiere, “dal principe al manager, dal prete allo specialista, dal direttore spirituale allo psicosociologo, è sempre il principio della sofferenza utile e del sacrificio consentito quello che costituisce la base più solida del potere gerarchizzato”. Oltretutto non si deve mai sottovalutare “l’abilità del potere a ingozzare i suoi schiavi di parole fino a farne gli schiavi delle sue parole”.

I giovani dovrebbero sempre ricordare che la vera libertà intellettuale e la vera intelligenza hanno “il potere di mescolare alla conoscenza e al senno una facoltà affettiva del tutto atta ad ammorbidire le situazioni e a sciogliere le tensioni anziché lasciarle degenerare in rapporti di odio” (Vaneigem, 2004). In prima e ultima analisi “la lotta per il linguaggio è la lotta per la libertà di vivere”. E “lo scopo di studiare economia non è di acquisire un insieme preconfezionato di risposte ai quesiti economici, ma di imparare ad evitare di essere raggirati dagli economisti” (Joan Robinson, 1973). Troppi economisti sono diventati gli ambasciatori dei vari potentati finanziari.

In definitiva secondo Vaneigem “non c’è un uso buono o cattivo della libertà di espressione. C’è solo un uso insufficiente” (2004). Le idee non dovrebbero mai essere condannate, solo “le vie di fatto” sono condannabili. Però tutte le regole morali possono ammettere eccezioni: “se arrivate in mezzo a una folla inferocita con una corda in mano e indicate un negro urlando “impiccatelo”, allora meritate di essere perseguiti” (Ronal Dworkin, statunitense, filosofo del diritto). Quindi nelle società liberali più moderne la vera moralità consiste nel “dover a volte tollerare, per ragioni morali, ciò che, sempre per ragioni morali, non si deve tollerare (Dworkin). Bisognerebbe sempre tenere presente la massima di Voltaire: “Non sono d’accordo con ciò che dite, ma mi batterò perché possiate dirlo liberamente”.

Per concludere, tutti i governanti del pianeta dovrebbero comprendere che “la Cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa più grande” (H. G. Gadamer). E i pezzi grossi del pianeta sindacale dovrebbero smuovere le chiappe e i neuroni e capire che senza la globalizzazione della sindacalizzazione aumenterà ancora la disumanizzazione. Le classi dirigenti sindacali italiane, europee, occidentali e mondiali andrebbero svecchiate e modernizzate. Perciò segnalo tre siti: www.etui.org (istituzione europea), www.ilo.org (organizzazione internazionale), www.fondazionebrodolini.it (centro studi con sede a Milano, Roma, Bucarest e Bruxelles).

* Raoul Vaneigem è stato uno dei protagonisti del Maggio francese e membro dell’Internazionale situazionista tra il 1961 e il 1970, insieme a Guy Debord (“La Società dello Spettacolo”, 1967). Tra i suoi saggi segnalo “Avviso agli studenti” (Piano B Edizioni, 2010) e “Niente è sacro, tutto si può dire” (Ponte alle Grazie, 2004).

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