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Il Dragone in affanno: l’economia cinese sta rallentando?

L’export di Pechino viaggia a gonfie vele, ma altri parametri macroeconomici lasciano supporre un’inversione di tendenza nella sua crescita inarrestabile. Il caso Australia. Perché gli Usa hanno bisogno della Cina e viceversa.

Ormai è quasi banale parlare dei grandi numeri dell’economia cinese. La crescita del Dragone sembra non conoscere ostacoli. Una crescita fondata sull’export: i bassi costi di manodopera, i massacranti turni di lavoro nelle fabbriche, la forza di un paese che è residenza di un quarto del genere umano hanno promosso ovunque il Made in China nel mondo. E i poderosi surplus di bilancio che il paese registra ogni mese vengono poi reinvestiti in faraonici progetti, sia all’interno che all’esterno. È così che Pechino incontra il favore dei governi locali, soprattutto in Africa e America Latina, grazie a prestiti accordati ai governi, la costruzione di infrastrutture e il sostegno allo sviluppo locale1. Basti pensare al faraonico che dovrebbe portare alla realizzazione di 36 dighe in Etiopia per incentivare lo sviluppo dell’energia idroelettrica, ed è solo la punta di un iceberg che si estende dall’America Latina all’Asia Centrale, passando per l’Africa e arrivando a toccare anche l’Europa.

Oppure i denari in surplus prendono un’altra strada, impiegati nell’acquisto di valute estere. Si stima che le riserve valutarie della Cina ammontino a quasi 2850 miliardi di dollari, di cui il 70% detenuti in biglietti verdi. In ottobre la bilancia commerciale cinese ha registrato il secondo miglior avanzo dell’anno, oltre 27 miliardi di dollari. C’è anche chi, come Robert Fogel, in un articolo comparso su Foreign Policy il 4 gennaio di un anno fa e che ha fatto subito il giro del mondo, stima che entro il 2040 il PIL cinese raggiungerà i 123.000 miliardi di dollari e il reddito pro capite gli 85.000 dolalri, più del doppio di quello previsto per l’Europa2.

Mentre le economie occidentali annaspano. il Dragone viaggia a mille. Ma è davvero così?

Già lo scorso agosto, l’autorevole quotidiano CNNMoney3 aveva messo in luce che la che il boom edilizio e spesa delle famiglie, che attualmente stanno favorendo la straordinaria crescita del Pil, sono sostenute dai debiti. Nel 2009 le banche cinesi hanno raddoppiato il numero dei prestiti rispetto all’anno precedente e ormai l’indebitamento privato ha raggiunto il 29% del Pil, e i prezzi delle case stanno continuando a salire, nonostante oltre 65 milioni di nuove abitazioni siano rimaste vuote. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all’edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. L’esistenza di città nuovissime e disabitate è nota e basta dare un’occhiata alle immagini dal satellite pubblicate dal britannico Daily Mail per averne conferma4. La Cina è vincolata all’export sia per gli interessi della classe dominante, sia per la dinamica industriale fondata sulla forza della riproduzione espansiva piuttosto che sulle innovazioni; inoltre non ha ancora sviluppato un mercato interno pronto ad assorbire la colossale produzione delle sue fabbriche. L’economia di Pechino, dunque, dovrà affidarsi alle esportazioni ancora per qualche tempo. I bassi salari e la condizione di semischiavitù in cui opera la stragrande maggioranza della popolazione, se da un lato hanno fatto del Dragone l’opificio del mondo, dall’altro sono il principale freno ai consumi. E i recenti aumenti salariali decisi dalle autorità non cambieranno di molto le cose: il reddito pro capite cinese (3.600 dollari annui) è ancora meno di un decimo di quello americano (46.000 dollari). sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma. Illuminante in proposito è l’analisi di Yu Yongding, presidente della China Society of World Economics, pubblicata sul China Daily lo scorso 23 dicembre5.

L’Australia è l’esempio più lampante di come l’erogazione di capitali cinesi finisca per “drogare” le economie locali per il tramite dell’immissione di liquidità a costo zero. Prostrata dalla crisi finanziaria come il resto dell’Occidente, la Terra dei canguri si è in seguito risollevata grazie agli investimenti nelle attività minerarie finanziati da Pechino. Ciò ha stimolato la domanda interna rilanciando il credito dei mutui ipotecari, il cui incremento riflette le aspettative di un continuo rialzo del valore degli immobili. Gli aumenti dei tassi d’interesse, decisi dalla banca centrale per contrastare l’inflazione, hanno richiamato ulteriori capitali, attratti dalla prospettiva di rendimenti più elevati, alimentando così un circolo vizioso. In pratica l’economia di Canberra è stata assorbita dalla bolla speculativa di Pechino. Ma cosa accadrebbe se la crescita del Dragone dovesse rallentare? Un modesto calo potrebbe avere conseguenze traumatiche nella posizione creditoria delle famiglie e nell’esposizione del sistema bancario. Anche l’Iran, che nel Dragone vedeva la principale valvola di fuga dalle sanzioni Onu, si prepara a subire le conseguenze della probabile flessione. Pechino ha deciso di ridurre le proprie importazioni di greggio iraniano portandole a 415.000 barili al giorno, dalle 499.000 dello scorso anno. C’è chi lo ritiene un avvertimento al paese islamico per indurlo a più miti consigli riguardo agli sviluppi del suo programma nucleare. E c’è chi, al contrario, sostiene che l’Iran non c’entri nulla ma sia il primo segnale che dopo Wall Street, Londra e Dubai, la prossima bolla economica a scoppiare sarà proprio quella di Pechino. Resta il fatto che la Cina ha già preannunciato un ulteriore rallentamento dei propri progetti già in corso nel paese persiano6.

Nel recente incontro tra il presidente americano Obama e il suo omologo cinese Hu Jintao, quest’ultimo ha detto che il sistema del dollaro è finito negli anni Settanta.

Ma in realtà è proprio lui il suo primo sostenitore. I surplus commerciali incamerati dalla Cina sono soprattutto in dollari, che il colosso asiatico reinveste nei paesi in Africa e Sud America di fatto inondandoli di dollari. Solo lo scorso anno, gli investimenti esteri cinesi hanno sfiorato i 40 miliardi di dollari, di cui 13 in America Latina per espandere la propria presenza nel settore petrolifero7. E le aziende Usa continuano ancora oggi a delocalizzare la propria produzione aldilà del Pacifico, attirate dai costi locali irrisori. Inoltre, attualmente gli Usa sono il primo importatore dei prodotti Made in China: nel 2010 il deficit commerciale Usa con la Cina ha superato i 250 miliardi di dollari8. Eppure lo yuan non si apprezza: la moneta cinese è legata a quella americana da un rapporto fisso del 40%, giudicato troppo basso dagli economisti. Ma la nuova strategia del gigante asiatico potrebbe partire proprio da qui.

La crisi ha messo in ginocchio un numero considerevole di aziende a stelle e strisce, ma quando la tempesta sarà passata alcune di queste avranno buone prospettive di ripresa. Oggi però, è possibile acquisirle a prezzi di saldo. E quanto più una moneta deprezzata aumenta il suo potere d’acquisto, riducendo il divario con quello del dollaro, tanto meno denaro sarà necessario per comprarle. E questo i cinesi lo sanno bene. Da qualche tempo Pechino ha iniziato a diversificare gli acquisti in favore di azioni delle imprese Usa. Quando (se?) la Cina deciderà la rivalutazione dello yuan, non sarà certo per filantropia9Difficile dire se l’economia cinese stia rallentando davvero o no. La forza dei grandi numeri è ancora sufficiente ad annebbiare ogni altra sfumatura.

 

Possiamo comunque trarre due conclusioni.

La prima è che la bolla speculativa cinese si incastra a meraviglia con l’economia Usa e con la politica obamiana del denaro alle banche a costo zero. Aggiungiamo il miliardo di dollari di titoli americani che i cinesi detengono direttamente o per il tramite di Hong Kong e Macao e avremo un’idea di quanto i due universi siano strettamente interconnessi, mantenendo artificiosamente in piedi il sistema economico mondiale.

La seconda è che tra Washington e Pechino è sempre la seconda a menare le danze, e la prova si è avuta nell’ultimo G20 finanziario a Parigi, sabato 19 febbraio10. Com’è noto, il summit dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali non ha poteri normativi, ma si limita a indicare dei principi standard per favorire la coordinazione delle maggiori economie globali. Nella fattispecie sono stati considerati:

a) il deficit del debito pubblico e fiscale e tasso di risparmio privato e debito privato;
b) lo squilibrio esterno composto di bilancia commerciale e dei flussi netti di redditi da capitale e trasferimenti, tenendo debito conto del tasso di cambio, fiscale, monetaria e le altre politiche; ma non il tasso di cambio reale e la quantità di riserve in valuta straniera, indicatori proposti dagli Usa (spalleggiati da India e Brasile) per sollevare la questione della rivalutazione dello yuan e per questo poco graditi alla Cina.

Insomma, una vittoria diplomatica per il Dragone. L’ennesima su uno Zio Sam ormai troppo sfiancato per poter gonfiare il petto come ai bei tempi.

 

1http://www.ariannaeditrice.it/artic...

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