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Home page > Attualità > George Floyd, I can’t breathe

George Floyd, I can’t breathe

Lo avevo previsto, lo vedevo chiaro nella mia mente il ritorno alla tanto agognata normalità. Lo sentivo forte dentro di me il battito della guerriglia, della corsa al profitto, del divertimento vacuo, dell’abuso dei propri giorni, dello stupro della natura e le impronte luride dei nostri passi. Lo immaginavo, eppure ho dovuto rivedere tutto, ho dovuto assistere di nuovo alle ennesime scene girate male, il loop di quel film senza successo che a volte è la realtà intorno a noi. L’ho guardato una volta sola il video di George Floyd, una sola volta a singhiozzi, con pause infinite del cuore e dello stomaco.

Non era il solito film americano, non erano gli anni ’50, non erano gli scontri ai tempi di Malcom X e Martin Luther King, quel volto schiacciato a terra, tra un’umanità persa e impotente non era Denzel Washington in Hurricane, non era Chiwetel Ejiofor in 12 anni schiavo, non era Mississippi Burning.

Eppure quel poliziotto, quell’onnipotenza nello sguardo, quella ingiustificata sicurezza che il suo corpo trasmetteva mentre premeva il suo ginocchio sul collo di un uomo che supplicava di non essere ucciso, che diceva a un uomo come lui di non riuscire a respirare, io quel poliziotto e quello sguardo li ho già visti. Altrove. In un passato che credevo estinto, un passato a tal punto ignobile da non poter credere che si ripresentasse così crudo, oggi.

Ho visto il volto dei miei bambini italosenegalesi, li ho guardati con i ricci sporcati dalla polvere, ho cercato di salvarli mentre gli toglievano l’ultimo respiro, ho pianto per l’impotenza dell’amore, ho visto i miei figli mentre chiedono di continuare a vivere schiacciati dal ginocchio di un’ameba qualunque e ho di nuovo sentito su di me il peso, geneticamente irrecuperabile, del privilegio bianco.

Sento il disagio nel doverne parlare, ancora oggi. È una nota stonata, è un disastro asincrono, è un argomento anacronistico, dovrebbe esserlo e questo condizionale fa male, accresce la rabbia, la voglia di giustizia e, ahimè, di vendetta. George Floyd non è solo su quel marciapiede, insieme a lui troppi afroamericani giacciono senza risposte. Muti nell’eternità, muti nel frastuono della nostra rabbia per strada. “Giustizia sarà fatta”, dice Trump.

E mi scappa un sorriso amaro di fronte all’irriverente e a tratti comico presidente di un popolo ancora troppo confuso sul proprio passato nonché sul proprio futuro. “George Floyd è morto per cause non connesse al soffocamento, stava male, era un tossico, era malato, ha avuto un arresto cardiaco in seguito a overdose…”. Una di queste sarà quella che sceglieranno e che ci propineranno senza imbarazzo. Restano i fatti, restano gli occhi di George e quelli di Derek Chauvin, l’uomo che avrebbe dovuto tutelare lui e chiunque altro, restano i minuti pesanti della morte di tutti noi su quel marciapiede. Restano le strade infuocate, quelle del passato…e quelle di oggi. Restano le parole, quelle gridate e quelle impresse con amarezza sul bianco. Il silenzio, resta il silenzio quando tutto è già stato detto e profanato.

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