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I campioni sono io: il tormentato rapporto dei napoletani con la sigla della Champion’s League

In fondo l’idea migliore la ebbe un tale, la sera del 15 maggio 2011. La sera, ovvero, della prima qualificazione del Napoli alla Champions League. La prima, certo: non valeva molto il ricordo appannato delle sporadiche apparizioni nella vecchia Coppa Campioni, peraltro torneo ben diverso dal suo successore, che erano state fugace, la prima, e dal finale grottesco, la seconda, con la squadra condizionata dagli umori del suo Reuccio ribelle tra le nevi di Mosca.

Quel tale, dicevo, fece l’unica cosa sensata possibile: girare la città in auto, comparire davanti ai crocchi di persone in festa, o semplicemente in uscita davanti ai locali, accendere la radio e mandare a tutto volume la tanto sospirata sigla della Champions League. Quella dal motivo solenne e classicheggiante, di cui la maggior parte delle persone riesce a malapena a distinguere le parole “the champions”, perdendosi nell’indecifrabilità del canto lirico e nel crescendo che attraversa il brano, davvero molto suggestivo. Inutile dire che l’irruzione del tale era salutata, ovunque, da applausi, cori, risate complici, complimenti per la trovata semplice e geniale.

Per anni avevamo sentito, noi del Napoli, la marcetta trillare solo per le altre: Juve, Inter, Milan, ma anche Fiorentina, Roma, Lazio, Parma. Forse anche per Chievo e Udinese, addirittura. I più la odiavano perché la associavano ad una serie di fatti infausti: l’impossibilità per gli azzurri di arrivare così in alto tanto da meritarsi la competizione dei campioni; altri snobbavano il cambio d’epoca, appunto: il passaggio dall’antico torneo, che metteva in gioco solo le vincitrici dei campionati, a questo nuovo, moderno, lunghissimo, a cui prendono parte anche quattro squadre per nazione, per rendere ancora più spettacolare e spendibile in termini commerciali il gioco del calcio, per la gioia delle emittenti televisive e dei loro sponsor; altri ancora, i più nostalgici, vi vedevano il simbolo di uno sport che stava cambiando appena era stato abbandonato dal suo interprete principale. Lui, si, il reuccio ribelle di cui sopra.
 
Insomma, i napoletani con questa sigla proprio non sapevano come rapportarsi. Era la musica di testa degli show di Zidane e Ronaldo, di quegli inglesoni guidati da ineccepibili baronetti alla Wenger o Ferguson, era il sottofondo delle vittorie, bagnate da coriandoli pendant, dei Kakà e dei Messi. Una crestomazia calcistica che noi, dai campetti di Licata e Frosinone, potevamo guardare solo da spettatori biliosi. Roba da ricchi, si pensava, roba televisiva, si aggiungeva, con l’invidia malcelata del rancoroso “ai tempi Suoi c’erano solo le prime in classifica e Bruno Pizzul che salutava i gentili telespettatori”. Più meno il contegno della proverbiale volpe a cospetto del grappolo d’uva irraggiungibile.

Poi il Napoli ha preso a risalire. Il ritorno in A, le due apparizioni in Europa League, con risvolti altalenanti; ma la frequenza nell’alta classifica si faceva, anno dopo anno, sempre più significativa. E poi la stagione 2010/2011. Qualcuno, vedendo la squadra macinare punti e consolidarsi in vetta, iniziò a sussurrarlo: “Ti immagini noi, con quella sigla...?”. “Zitto”, gli intimavano gli altri “che porta male. E poi a noi di questa sigla non ce n’è mai fregato nulla”. Neanche si capivano le parole. Qualche altro prese a fare le prove: “The champions, the champions, is free”. Is free? Ma che è? Verrebbe: “I campioni, è libero”, quasi più un invito alla toilette che una marcia trionfale. 

Perciò basta, non la sappiamo cantare, non è cosa per noi, lasciamola agli altri. Lasciamola a quelli dell’Europa che conta, che probabilmente sanno che è composta in un melange di tre lingue  - inglese francese e tedesco - da un tal Tony Britten sulle note di “Zadock the priest” di Hendel, che a sua volta, era il 1727, l’aveva scritta in onore di Giorgio II d’Inghilterra. Il cui significato, in verità, non è che sia così entusiasmante. Traducendola suona così: “Queste sono le squadre migliori, sono tutte le squadre migliori, l’evento principale. I maestri, i migliori, le migliori squadre, i campioni, i grandi ed i migliori! Una grande manifestazione pubblica, l’evento principale: questi sono gli uomini, loro sono i migliori, sono questi i campioni!”, e ricorda più la cantilena di un paranoico di uno sperduto Opg di provincia che la consacrazione della supremazia continentale nella pedata.

Però, l’appetito vien mangiando. Il Napoli gioca bene mentre le altre, specie Juve e Roma, un po’ meno, e così arriva il 15 maggio: il pareggio con l'Inter e il terzo posto blindato ci spalancano le porte della maggior competizione europea, tra l'altro senza la seccatura dei preliminari. Qualcuno lo immaginava, nessuno lo aveva scritto, e non è che se ne era parlato così tanto, ripeto, per motivi scaramantici. Ma era un segreto di Pulcinella che sgorgava autonomo in ognuno dei milioni di tifosi: tutta Napoli voleva andare in Champions per sentire, una buona volta, la maledetta sigla suonare per noi. Perciò quando martedì sera, alla fine della vittoria con il Chelsea, tornando in metropolitana mi sono imbattuto in un giovanotto reduce dallo stadio ebbro di gioia e rapito dal canto, uno di quelli che non ti sbagli a immaginare alle prese più con Gigi D’Alessio che con Hendel, sono stato felice di sentirgli azzardare: “De cempions it’s meeee”. I campioni sono io. Sì, sei tu.

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